La Camera d’appello della Corte penale internazionale conferma l’assoluzione di Ngudjolo Chui


Lo scorso 27 febbraio 2015, al termine di un procedimento durato oltre 7 anni (!), la Camera d’appello della Corte penale internazionale (composta dai giudici Sanji Mmasenono Monageng – Presidente –, Sang-Hyun Song, Cuno Tarfusser, Erkki Kourula ed Ekaterina Trendafilova) ha confermato a strettissima maggioranza (di 3 giudici contro 2) la decisione del 18 dicembre 2012 della Seconda Camera di primo grado, con la quale il congolese Mathieu Ngudjolo Chui era stato assolto dalle accuse a suo carico perché la sua responsabilità non era stata provata “oltre ogni ragionevole dubbio”. L’imputato, arrestato a Kinshasa il 6 febbraio 2008 e immediatamente trasferito a L’Aia, era accusato di aver pianificato e ordinato la commissione di crimini di guerra e contro l’umanità (in particolare nel corso dell’attacco al villaggio di Bogoro del 24 febbraio 2003) in veste di comandante di gruppi ribelli di stanza nella regione dell’Ituri, le c.d. Allied Forces of the Nationalist and Integrationist Front (FNI) e la Patriotic Resistance Force (FRPI); in ragione di ciò, era stato “colpito” da un mandato d’arresto emesso il 6 luglio 2007 a conclusione delle indagini avviate a seguito del self-referral della Repubblica Democratica del Congo del 2004 (lo stesso che aveva dato avvio ai procedimenti nei confronti di Thomas Lubanga Dyilo e Germain Katanga, le cui condanne sono, invece, recentemente divenute definitive).

La decisione in esame è di particolare interesse per almeno due ordini di ragioni, tra loro connesse: la difficoltà sottesa all’identificazione di quegli errori procedurali che, avendola “materially affected”, avrebbero giustificato secondo il Procuratore il ribaltamento della sentenza di primo grado; e la spaccatura che si è in tutta evidenza consumata all’interno del collegio giudicante a causa delle diverse valutazioni in ordine a tale specifico aspetto (testimoniate dal parere dissenziente e congiunto allegato alla decisione dai giudici Tarfusser e Trendafilova, le cui opinioni verranno illustrate a fianco di quella della maggioranza).

A seguito della sentenza di assoluzione del 18 dicembre 2012, la Procuratrice Fatou Bensouda aveva proposto appello, ritenendo che la decisione fosse stata materially affected : 1) dagli errori commessi nella formulazione dello standard di prova (“beyond reasonable doubt”); 2) dall’erronea valutazione del complesso delle prove; 3) dalla cattiva gestione del procedimento e dalla conseguente impossibilità per la Procuratrice di presentare adeguatamente il caso.

In primo luogo, secondo la Procuratrice, la Camera aveva interpretato il par. 3 dell’art. 66 nel senso di imporre all’organo inquirente di dimostrare che non si potesse dare una lettura alternativa dei fatti, elevando lo standard sino a richiedere che questi siano provati “to a degree of absolute certainty” (par. 42 della sentenza), ossia “beyond any conceivable doubt” (par. 98). In particolare, pur non potendo escludere che l’accusato fosse in grado di rivestire un ruolo di comando all’epoca della battaglia di Bogoro, i giudici avevano ritenuto che la leadership poi guadagnata all’interno dell’alleanza FNI/FRPI non dimostrasse “necessarily” che, prima del marzo 2003 (e quindi all’epoca del suddetto attacco), Chui rappresentasse una figura di spicco nell’ambito dei gruppi attivi in quella regione (par. 105). Richiedendo, di conseguenza, che ai fini della condanna fosse “necessarily and totally” (e non “reasonably”) esclusa ogni possibile lettura alternativa delle prove e testimonianze (par. 106, corsivo nell’originale).

Secondo la maggioranza dei giudici della Camera d’appello, al contrario, la decisione della Camera di primo grado andava ricondotta all’applicazione di quel margine di discrezionalità nella valutazione delle prove più volte riconosciutole nella prassi della Corte (tra le altre, in una decisione sul caso Ruto del 30 agosto 2011). Conformemente a tale principio, in sede di appello ci si dovrà infatti limitare a verificare se, avendo considerato la totalità delle prove e pur essendo possibile pervenire a diversa interpretazione dei fatti, la scelta fatta dal giudice di prime cure non abbia condotto ad una conclusione irragionevole (par. 117).

Tali affermazioni vengono contestate dai giudici Tarfusser e Trendafilova, i quali evidenziano come l’applicazione dello standard di prova “beyond reasonable doubt” (conforme al dettato del par. 3 dell’art. 66 dello Statuto di Roma) non possa giustificare che sia fugato “any reasonable doubt” (par. 55 dell’opinione dissenziente, corsivo nell’originale). Quanto ad “imaginary doubts or speculative observations” sulla colpevolezza dell’accusato, questi sarebbero invocabili soltanto ove siano ragionevolmente deducibili dalle prove; se così non fosse, infatti, la Camera di primo grado potrebbe considerare anche i “forced doubts” e finirebbe per rendere virtualmente impossibile la condanna di qualsiasi accusato (par. 56). Nel caso in esame, rappresenterebbe esempio di ricorso ad un “forced doubt” l’affermazione della Camera secondo cui la confessione che Chui aveva reso agli inquirenti congolesi circa il fatto di aver guidato l’attacco a Bunia del 6 marzo 2003, avesse in realtà lo scopo di ottenere una posizione di vertice, qualora egli fosse stato successivamente incardinato nell’esercito regolare statale (parr. 64-65).

Il secondo motivo di appello della Procuratrice aveva a che fare con la discrezionalità della Camera di primo grado, che avrebbe commesso un errore di diritto, nel non prendere in considerazione taluni fatti e fonti di prova (par. 127), e un errore di fatto, nel ritenere che la totalità delle prove e dei fatti non fossero sufficienti a dimostrare la colpevolezza dell’accusato “beyond reasonable doubt” (par. 128). Al di là della valutazione sui singoli casi portati alla sua attenzione, la Camera d’appello ha rigettato il ricorso sulla base del principio per cui il giudice di primo grado è autorizzato a non prendere in considerazione la testimonianza di un soggetto che non ritenga credibile, persino quando tale testimonianza sia corroborata da altre prove, purché ciò non conduca a conclusioni irragionevoli (parr. 167-171 e par. 192).

Anche da tale affermazione hanno preso le distanze i giudici Tarfusser e Trendafilova, secondo i quali la Camera di primo grado era giunta a quelle conclusioni dopo aver isolato singoli fatti ed elementi di prova, senza valutare il complessivo impianto dell’accusa; conseguentemente, non sarebbero state prese in considerazione prove essenziali e credibili, che avrebbero potuto costituire una solida base per l’accertamento della verità (par. 31 dell’opinione dissenziente). Così facendo, i giudici d’appello avevano di fatto sconfessato anche le conclusioni a cui era precedentemente pervenuta la Camera d’appello nel par. 22 della sentenza sul caso Lubanga; in quell’occasione, conformemente alla prassi dei Tribunali ad hoc il collegio giudicante aveva sottolineato che, per stabilire se un accusato sia colpevole o meno, si debba adottare un approccio olistico soppesando, rispetto ai fatti in esame, “all the evidence taken together”. In altre parole, secondo i giudici Tarfusser e Trendafilova lo standard “beyond reasonable doubt” andrebbe riferito all’intero complesso, e non ai singoli elementi e fonti di prova (parr. 33-34). Nel caso di specie, la Camera d’appello avrebbe perciò dovuto riconoscere un errore di diritto, consistente nell’aver semplicemente rigettato tutti gli elementi di prova che risultassero in contraddizione tra loro, omettendo di costruire un “system of evidence” alla stregua del quale successivamente dare precedenza a quelle prove o elementi di prova anche soltanto parzialmente coerenti con esso (par. 40).

Nell’ultimo motivo di appello, la Procuratrice contestava che la decisione fosse materially affected da un errore procedurale della Camera di primo grado, ossia la violazione del suo diritto a presentare adeguatamente il caso dell’accusa (previsto all’art. 64, par. 2, dello Statuto). In particolare, l’errore sarebbe consistito nella mancata adozione di sanzioni efficaci in merito alle interferenze che l’accusato avrebbe esercitato nei confronti di testimoni e vittime, pure denunciate da Fatou Bensouda a partire dal 2008 e ritenute sufficienti a giustificare delle intercettazioni telefoniche (parr. 235, 249 e 252).

Sulla scorta di un’obiezione della difesa di Ngudjolo Chui, la Camera d’appello si è preoccupata in primo luogo di accertare se anche l’organo inquirente della Corte possa invocare la violazione del diritto all’equo processo di cui all’art. 64 dello Statuto, inteso nel senso di non avvantaggiare nessuna delle due parti (par. 253). La risposta positiva è stata fatta derivare dall’accoglimento del principio in base al quale la tutela dell’effettiva capacità di presentare le prove a sostegno dell’accusa rappresenta un corollario del dovere di stabilire la verità, che l’art. 69 impone alla Camera di primo grado (parr. 256-257). Nel merito, invece, anche questo motivo di appello è stato rigettato, in quanto quella di negare l’accesso alle conversazioni registrate rappresenterebbe decisione discrezionale della Camera di primo grado (ai sensi della regola 92, par. 3, delle Rules of the Court), con la quale il giudice di secondo grado può interferire soltanto nel caso in cui quella risulti irragionevole, essendo stata la suddetta discrezionalità esercitata sulla base di erronea interpretazione della legge o dei fatti, ovvero quando sia di per sé talmente ingiusta e irragionevole da costituire un abuso (par. 267); e non dunque nel caso di specie, in cui era stato invocato sia il diritto alla difesa dell’accusato che l’art. 8 della CEDU e ritenuto che la Procuratrice non avesse dimostrato che l’impossibilità di accedere a quelle conversazioni la avrebbe privata della stessa possibilità di stabilire la verità (parr. 268-269). Quanto infine alla facoltà di utilizzare i rapporti integrali sulle conversazioni (redatti dal Cancelliere) e gli estratti delle registrazioni, pur riconoscendo che sia stato commesso un errore che ha impedito alla Procuratrice di contestare ad un testimone di aver modificato le proprie dichiarazioni a seguito di pressioni o minacce (parr. 278-283), la Camera d’appello ha deciso di non accogliere l’appello, evidenziando che per ordinare un nuovo processo sulla base di un errore di diritto come quello in parola sia necessario dimostrare anche che la sentenza sia stata materially affected da quell’errore (parr. 284-285).

Anche in questo terzo motivo d’appello, che per la sua (quasi assorbente) rilevanza e la sua importanza nel contesto della decisione è stato affrontato per primo nella opinione dissenziente, il ragionamento della maggioranza dei giudici è stato fortemente contestato dai giudici Tarfusser e Trendafilova. Secondo questi ultimi, nel negare alla Procura l’accesso ai (e dunque l’utilizzo in udienza dei) report del Cancelliere, aventi ad oggetto il monitoraggio delle conversazioni telefoniche fatte da Ngudjolo durante la detenzione, da cui sarebbe emerso che l’imputato aveva illecitamente influenzato i testimoni, la Camera di primo grado ha violato non solo il diritto-dovere dalla Procura di indagare e il principio della parità delle armi delle parti (par. 6), ma anche il proprio diritto-dovere di accertare la verità (par. 25). Di più: secondo i giudici dissenzienti, la Camera ha fondato il suo giudizio (anche) su prove testimoniali che sapeva perfettamente non essere genuine (par. 28). Pur riconoscendo gli errori commessi dalla Camera di primo grado, tuttavia, la maggioranza dei giudici dell’appello è pervenuta alla conclusione secondo cui la Procura non avrebbe dato sufficiente prova del fatto che tali errori abbiano materialmente inciso sulla decisione –, ovvero, in altre parole, del fatto che la decisione di primo grado sarebbe stata diversa se la Camera avesse consentito il completo accesso ai materiali.

A tale discutibile affermazione il collegio di secondo grado è peraltro pervenuto nonostante risulti agli atti: (i) che l’imputato sia in qualche modo intervenuto sui testimoni; (ii) che il Cancelliere, nel corso dei due anni di monitoraggio delle conversazioni telefoniche, abbia sottoposto alla Camera ben sette report; (iii) che la Procura abbia chiesto l’accesso ai report e alle conversazioni per poter investigare sulla possibile vilazione dell’Art. 70 dello Statuto di Roma; (iv) che la Camera le abbia ripetutamente negato l’accesso a quelle conversazioni, impedendo l’approfondimento investigativo; (v) che la Camera stessa non abbia preso alcuna iniziativa per approfondire la condotta illecita dell’imputato; (vi) che alla Procura sia stato negato anche l’utilizzo delle poche informazioni a disposizione, per valutare in sede di esame e di controesame la credibilità di testimoni precedentemente contattati dall’imputato.

Una conclusione che, nei fatti, secondo i giudici dissenzienti si risolverebbe nell’imposizione di un eccessivo onere probatorio sulla Procura (c.d. probatio diabolica): non essendo sufficiente l’esistenza di un “discernibile error” (par. 15), ma essendo richiesto che la Procura indichi “with sufficient precision” come l’errore commesso dalla Camera di primo grado (nello specifico, l’avere negato l’accesso a quel materiale probatorio e quindi averne negato l’utilizzo in udienza) abbia materialmente influito sulla decisione; ovvero, in alternativa, che la Procura dimostri che i giudici sarebbero potuti pervenire a una decisione di segno opposto, laddove fosse stata autorizzata ad utilizzare quel materiale.

Al contrario, non essendo l’appellante nella condizione di poter efficacemente indicare gli effetti materiali di quell’errore, la sua stessa esistenza dovrebbe giustificare secondo i giudici Tarfusser e Trendafilova l’accoglimento del ricorso (parr. 29-30).

Considerato che le questioni giuridiche su cui la Camera d’appello era stata chiamata ad esprimersi “are crucial to the proper conduct of any trial proceedings and are fundamental for the future cases before this Court” (come affermato dai giudici dissenzienti nel par. 69 della loro opinione), è davvero auspicabile che la decisione in commento – anche a causa della difformità rispetto a quella sul caso Lubanga – dia luogo ad un ampio e acceso dibattito e non solo all’interno della stessa Corte.