Il mancato arresto di al-Bashir da parte del Sudafrica


La notizia dell’atterraggio dell’aereo presidenziale sudanese presso una base militare sudafricana è arrivata improvvisa nel tardo pomeriggio del 13 giugno e, nonostante la presenza di al-Bashir al 25° Summit dell’Unione africana in corso di svolgimento a Sandton (sobborgo di Johannesburg, nella regione del Gauteng) fosse stata ufficialmente anticipata, ha in breve tempo “ridestato” e “rinvigorito” quella parte di opinione pubblica internazionale che da anni si batte affinché gli Stati (specialmente quelli che hanno ratificato lo Statuto) eseguano i due mandati d’arresto spiccati nei confronti di Bashir dalla Corte penale internazionale (da qui in avanti CPI), rispettivamente il 4 marzo 2009 – per crimini di guerra e contro l’umanità – e il 12 luglio 2010 – per genocidio.

La posizione del Sudafrica è apparsa subito assai scomoda: paese ospite dell’incontro, da un lato, ma anche uno dei primi Stati parti a dare esecuzione allo Statuto della CPI, con l’Implementation of the Rome Statute of the International Criminal Court Act 27 (da qui in avanti, semplicemente ICC Act) del 2002 e ad obbligarsi a cooperare con quest’ultima.

Proprio l’interpretazione delle disposizioni contenute nella Parte IX dello Statuto, quella dedicata alla cooperazione degli Stati parti, ha formato oggetto di un succinto provvedimento del presidente della seconda camera preliminare, il giudice Tarfusser. Interpellato dalla procuratrice Bensouda, il 13 giugno, il giudice ha sottolineato come nel corso di un incontro, avuto il giorno precedente, con l’Ambasciatore del Sudafrica nei Paesi Bassi (convocato a seguito di richiesta di consultazione ex art. 97 dello Statuto) egli avesse già ribadito (in linea con quanto affermato nel par. 29 di un’analoga decisione del 9 aprile 2014, indirizzata alla Repubblica Democratica del Congo) che sulla base della risoluzione 1593/2005 del Consiglio di sicurezza ONU il Sudan aveva un obbligo di cooperazione con la Corte, il cui effetto era quello di rimuovere l’immunità del Presidente al-Bashir (par. 6); il Sudafrica, dunque, così come la Repubblica Democratica del Congo o qualsiasi altro Stato parte, non avrebbe potuto invocare l’esistenza di “obbligazioni confliggenti” nei confronti di uno Stato non parte per giustificare, ex art. 98, la propria mancata cooperazione (par. 7). Di conseguenza, nel caso in cui questi fosse entrato sul territorio dello Stato, le autorità del paese sarebbero state obbligate ad arrestare e trasferire al-Bashir (parr. 9-10).

A supporto di questa interpretazione, tuttora discussa sul piano internazionale (sul punto si vedano, tra gli altri, il contributo di Walter Morana su questo blog e quello di Paola Gaeta su Opinio Juris), occorre ricordare che nell’agosto 2009, a margine di un incontro di un Comitato ministeriale dell’Unione africana, il Direttore generale del Dipartimento “International Relations and Cooperation” sudafricano aveva affermato che “se oggi il Presidente Bashir entrasse nel Paese, a termini di legge dovrebbe essere arrestato”. Tale dichiarazione confermerebbe non solo che ai sensi dell’art. 4 dell’ICC Act del 2002 l’immunità di un Capo di Stato estero non può essere invocata quale ostacolo all’esecuzione del provvedimento, ma soprattutto che (come confermato da una dichiarazione ufficiale del Ministro degli esteri, citata da fonti di informazione sudanesi) un giudice sudafricano aveva già all’epoca reso esecutivo il primo mandato d’arresto (come previsto dall’art. 9 dell’ICC Act).

Forti di questa “copertura” normativa e dell’esecutività dei mandati d’arresto della CPI sul piano interno, i rappresentanti del Southern Africa Litigation Centre (organizzazione non governativa che ha come finalità la promozione dei diritti umani e del principio di legalità nell’Africa meridionale) nel pomeriggio del 13 giugno hanno adito l’Alta Corte del Nord Gauteng (a Pretoria) allo scopo di ottenere un ordine di arresto di al-Bashir. Nella mattinata di domenica 14 giugno, il giudice Fabricius ha emesso un’ordinanza provvisoria, con la quale si proibiva ad al-Bashir di lasciare il territorio del paese e si imponeva alle autorità di “prendere tutte le misure necessarie” a tal fine.

Nella tarda mattinata di lunedì 15 giugno, negli stessi minuti in cui dinanzi all’Alta Corte (composta dal presidente Dunstan Mlambo, dal suo vice Aubrey Ledwaba e dallo stesso Ggiudice Fabricius) si teneva l’udienza al termine della quale sarebbe stato emesso un ordine di arresto, si è tuttavia diffusa la notizia della partenza in gran segreto di Bashir, dalla stessa base militare di Pretoria in cui era atterrato il giorno precedente.

Ciò premesso, è opportuno sottolineare che nell’ambito del procedimento dinanzi all’Alta Corte del Nord Gauteng le autorità statali hanno invocato le norme sull’adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale e non l’art. 98 dello Statuto di Roma.

In particolare, al par. 3 dell’affidavit depositato dal Direttorato generale Justice and Constitutional Development (che in base al Capitolo 4 dell’ICC Act riceve e “smista” le richieste di arresto e consegna inoltrate dalla CPI) si evidenzia che il 4 giugno 2015 il Sudafrica ha sottoscritto un accordo con la Commissione africana relativo all’organizzazione del Summit, il cui Preambolo dispone che la responsabilità esclusiva dell’organizzazione degli incontri ricade sulla Commissione. L’art. VIII del medesimo accordo precisa inoltre che il Sudafrica è tenuto a riconoscere ai membri della Commissione e dello staff, nonché a tutti i delegati e rappresentanti delle organizzazioni intergovernative, i privilegi e le immunità previsti dalla convenzione generale sui privilegi e le immunità dell’Organizzazione dell’unità africana (tra cui quella dall’arresto e dalla detenzione – ex lett. a, del par. 1 dell’art. V). Di conseguenza, secondo il governo sudafricano il paese ospite non solo non avrebbe potuto impedire al presidente al-Bashir di entrare nel proprio territorio, ma sarebbe stato altresì tenuto a riconoscergli l’immunità dall’arresto. In aggiunta, poiché l’accordo sul summit è stato reso esecutivo attraverso la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale sudafricana, le citate disposizioni avrebbero assunto valore di legge dello Stato: a partire da tale momento, ai sensi dell’art. 233 della Costituzione sudafricana, i tribunali statali sarebbero stati tenuti a interpretare ogni legge vigente (e dunque anche l’ICC Act) in conformità agli obblighi discendenti da quel trattato.

Nelle motivazioni dell’ordine di arresto di al-Bashir, depositate il 24 giugno, il collegio giudicante ha però rigettato la posizione del governo. In particolare, i giudici hanno sottolineato che il regime costituzionale sudafricano riconosce il primato dello Statuto di Roma sull’accordo sottoscritto con la Commissione africana per tre ordini di motivi: innanzitutto perché il suo valore vincolante deriva dal procedimento di adattamento cui si è fatto ricorso (vale a dire, tramite l’ICC Act); in secondo luogo, perché il Sudafrica non ha mai ratificato la convenzione OUA sulle immunità; infine, perché le decisioni dell’Unione africana (compresa quella di invitare al-Bashir) non hanno forza di legge e dunque non possono derogare agli obblighi internazionalmente assunti dal paese. Due ulteriori circostanze vengono poi invocate contro l’opponibilità dell’accordo: il fatto che esso sia stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale mediante “nota” del governo (atto privo di valore di legge e che non potrebbe perciò derogare all’ICC Act) e il rilievo per cui l’interpretazione proposta dal Direttorato, secondo cui ad al-Bashir andrebbe riconosciuta l’immunità ai sensi della legge del 2001, si scontra con l’assenza nell’art. 5 di quest’ultima di un espresso riferimento ai Capi di Stato – riferimento assente, come visto, anche nell’art. VIII dell’accordo (par. 28).

Sul piano internazionale un importante precedente confermerebbe poi che le autorità sudafricane non potevano derogare alle norme dello Statuto di Roma sull’immunità: il 9 aprile 2014, la Repubblica Democratica del Congo è stata oggetto, a seguito del mancato arresto di al-Bashir nel corso di una visita nel paese, di una decisione di non cooperazione da parte della CPI (sopra citata), nella quale si ribadiva il valore vincolante delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, evidenziando in particolare che la n. 1593 del 2005, contenente il referral della situazione in Darfur, obbliga tutti gli Stati membri a riconoscere come prevalente l’obbligo di cooperare con la Corte, e dunque quello di arrestare al-Bashir (parr. 31-32).

Se è evidentemente ancora presto per comprendere quali ricadute possa avere sul piano delle relazioni internazionali del Sudafrica il mancato arresto di al-Bashir, possiamo invece dar conto delle concitate reazioni sul piano interno. Il 21 giugno, prima cioè che venissero rese pubbliche le motivazioni dell’Alta Corte del Nord Gauteng, l’opposizione ha infatti invocato l’apertura di un’indagine sulla vicenda; il 25 giugno seguente, il ministro per la Presidenza del Sudafrica, Jeff Radebe, mentre il presidente Zuma evitava ogni domanda sulla vicenda, ha fatto sapere che il governo “riconsidererà la partecipazione del Sudafrica allo Statuto di Roma”, pur ritenendo assai improbabile la decisione di denunciarlo.

Pur ribadendo che in situazioni del genere ciò che più preoccupa è l’immobilismo del Consiglio di sicurezza ONU – che a dicembre 2014 ha spinto la procuratrice Bensouda a decidere di “congelare” il caso del Darfur, denunciando la non cooperazione di quest’organo nel corso della sua relazione annuale a New York –, appare altrettanto condivisibile il rilievo del suo vice, James Stewart, il quale ha sottolineato come il caso al-Bashir dimostri come “un mandato d’arresto della Corte penale internazionale significhi davvero qualcosa”: quanto meno, il restringimento della libertà di movimento dei destinatari, anche qualora rivestano la carica di Capo di Stato.