
Lo scorso 2 luglio il Comitato del patrimonio mondiale dell’UNESCO ha aggiunto tre siti alla lista del patrimonio mondiale in pericolo. Si tratta della Vecchia Città di Sana’a e della Vecchia Città di Shibam, in Yemen, e del sito di Hatra, in Iraq.
La decisione del Comitato è frutto degli aspri conflitti che imperversano nelle due regioni, suscettibili di minacciare l’integrità di tali beni culturali. Questo approccio è il risultato di un processo evolutivo, teso alla protezione di interessi comuni dell’umanità. Sotto questo profilo, la comunità internazionale ha mostrato una sempre maggior attenzione in ordine alla tutela internazionale del patrimonio culturale. Infatti, non pochi sono i sistemi convenzionali volti alla sua protezione. Tuttavia, tali meccanismi spesso mancano di veri e propri poteri di enforcement. Tale profilo di criticità viene particolarmente in rilievo con riferimento alla Convenzione UNESCO di Parigi sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale del 1972.
La suddetta Convenzione UNESCO del 1972 si fonda su due principi fondamentali. Da un canto, quello della responsabilizzazione dello Stato territoriale, il quale si impegna a tutelare il patrimonio culturale sul proprio suolo per conto della comunità internazionale. Dall’altro, quello della complementarità dell’azione della comunità internazionale, la quale interviene soltanto, per così dire, a sostegno dell’azione statale.
La Convenzione istituisce, all’art. 8, un Comitato del patrimonio mondiale, incaricato di vigilare sulla corretta applicazione del dispositivo pattizio. Tale organo, in particolare, cura la redazione di due liste: una “lista del patrimonio mondiale” e una “lista del patrimonio mondiale in pericolo”. I siti della Vecchia Città di Sana’a, della Vecchia Città di Shibam e quello di Hatra già figuravano nella prima lista quando il Comitato ha deciso di aggiungerli alla lista del patrimonio in pericolo. Più nello specifico, l’iscrizione della Vecchia Città di Sana’a nella lista del patrimonio mondiale risale al 1986; quella della Vecchia Città di Shibam al 1982; quella di Hatra al 1985.
Le ragioni che sottendono tale iscrizione sono da ricercarsi nella volontà, da parte del Comitato e degli Stati interessati, di mobilitare la cooperazione internazionale per la tutela di tale patrimonio, sensibilizzando la comunità internazionale.
Occorre, a questo punto, operare due considerazioni riguardo a tale iscrizione nella lista del patrimonio mondiale in pericolo. La prima attiene, come detto, alla mancanza di poteri di enforcement particolarmente rilevanti. Infatti, la Convenzione UNESCO del 1972 non prevede alcuna forma di intervento diretto teso alla salvaguardia del bene in pericolo senza il consenso dello Stato territoriale.
Tuttavia, non può dirsi che l’iscrizione dei siti di Sana’a, Shibam e Hatra rimanga priva di conseguenze giuridiche. Infatti, la seconda considerazione concerne le misure che il Comitato può prendere ai sensi della Convenzione UNESCO. In particolare, l’iscrizione nella lista del “patrimonio mondiale in pericolo” comporta la destinazione di una quota rilevante del Fondo del patrimonio mondiale, come sancito dal punto n. 189 delle Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention del 2013. Tale Fondo è istituito all’art. 15 della Convenzione UNESCO e le sue risorse sono costituite principalmente dai contributi volontari e da quelli obbligatori degli Stati. Benché l’iscrizione possa sottolineare l’urgenza di interventi di salvaguardia e la necessità di riservare ingenti fondi ai siti in questione, l’art. 13, par. 6, della Convenzione, stabilisce che spetta comunque al Comitato decidere circa l’impiego delle risorse del Fondo, la cui disciplina è contenuta al punto 224 del suddetto documento. Inoltre, rimane di competenza del Comitato ai sensi dei punti 190 e 191 delle Operational Guidelines anche il controllo annuale dello stato di conservazione dei beni inseriti nella lista del patrimonio mondiale in pericolo. Sulla base di tali controlli, il Comitato, d’intesa con lo Stato in questione, può decidere di adottare misure addizionali, necessarie per la conservazione del bene, oppure rimuovere lo stesso bene dalla lista in quanto o ritenuto non più in pericolo od oramai a tal punto deteriorato da non presentare più le caratteristiche che hanno in precedenza determinato la sua iscrizione.
In aggiunta, le Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention regolamentano, al punto 233, l’assistenza internazionale che può, eventualmente, essere richiesta in favore di un bene inserito nella lista del patrimonio mondiale. In particolare, come specifica il punto 236, sarà accordata una priorità ai beni inseriti nella lista in pericolo, prevedendo, peraltro, la creazione di una specific budget line, destinata esclusivamente a tali beni.
Alla luce dell’iscrizione dei siti si Sana’a, Shibam e Hatra secondo il dispositivo contenuto al punto 179, lett. b), par. V (pericolo potenziale dovuto a conflitto armato), il regime giuridico rilevante prevede la possibilità, per il Comitato, d’intesa con lo Stato interessato, di elaborare misure correttive e di monitorare la loro attuazione attraverso l’invio di osservatori qualificati. In particolar modo, il punto 183 delle Operational Guidelines dispone che il Comitato adotti, d’intesa con lo Stato parte, “a desired state of conservation”, adotti, cioè, delle misure correttive tese a conservare il bene al fine di rimuoverlo dalla lista in pericolo. In tale operazione, il Comitato si può avvalere anche del parere del Segretariato. Per rafforzare tale regime, il punto 184 stabilisce che il Comitato può decidere di inviare una missione di osservatori qualificati di “advisory bodies” o altre organizzazioni per visitare i beni, valutare la portata delle minacce a loro rivolte e proporre ulteriori misure da adottare.
L’iscrizione dei due siti yemeniti, dunque, e di quello iracheno nella lista del patrimonio mondiale in pericolo e le scarne conseguenze che ne derivano mostrano lo iato esistente tra la necessità, sentita a livello universale, di proteggere il patrimonio mondiale con l’inconsistenza del relativo sistema di tutela, inquadrato in meccanismi di natura convenzionale (per definizione vincolanti soltanto per alcuni Stati).