
A distanza di quasi due mesi dall’adozione della decisione con cui la Camera d’appello del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (da qui in avanti ICTY) aveva ordinato alla Camera di primo grado di revocare il provvedimento mediante cui nel novembre 2014 aveva autorizzato il rilascio provvisorio di Vojislav Šešelj, lo scorso lunedì 25 maggio il Ministero di giustizia serbo ha ricevuto una richiesta di arresto e consegna dell’accusato da parte dell’ICTY (notizia confermata il giorno seguente dal ministro di giustizia Nikola Selakovic a Serge Brammertz, procuratore del tribunale, durante una visita di quest’ultimo a Belgrado).
Nell’attesa di conoscere le iniziative che il governo del paese balcanico vorrà intraprendere, la serie di eventi sin qui citati fornisce lo spunto per ripercorrere le ultime e più significative tappe di un vero e proprio “percorso a ostacoli”, iniziato con la consegna spontanea dell’accusato nel 2003. In particolare, in questa breve nota daremo conto non soltanto delle citate decisioni dei due collegi giudicanti dell’ICTY, ma anche del comportamento tenuto dal Procuratore della Corte e dell’iniziativa del Parlamento dell’Unione europea – recentemente intervenuto sulla questione della liberazione dell’imputato, tenuto conto delle ripercussioni che la vicenda potrebbe avere sul processo di adesione della Serbia all’Unione europea.
Vojislav Šešelj è accusato della commissione di crimini contro l’umanità e crimini di guerra mediante partecipazione ad una Joint Criminal Enterprise (JCE) che aveva l’obiettivo di rimuovere la maggioranza della popolazione croata e bosniaca dalle zone riconducibili alla c.d. Repubblica Srpska, ma anche di aver istigato, attraverso diversi hate speeches, le forze militari serbe a commettere crimini funzionali al suddetto progetto, che avrebbe dovuto infine condurre alla creazione della “Grande Serbia”. Raggiunto dal mandato di cattura dell’ICTY, nel febbraio 2003 Šešelj si era presentato a L’Aia e consegnato volontariamente al tribunale. Il processo, iniziato soltanto quattro anni dopo, nel novembre 2007, si era già protratto per quasi 6 anni quando nel luglio 2013, a poche settimane dall’emissione della sentenza, il giudice danese Frederik Harhoff era stato rimosso e sostituito dal giudice senegalese Mandiaye Niang, a cui era stato concesso un congruo lasso di tempo per esaminare tutto il materiale processuale e poter quindi partecipare alle deliberazioni del collegio di primo grado (per una breve storia del processo, si veda il Case information sheet a cura dell’ICTY).
Nel giugno 2014, tenendo conto del peggioramento delle sue condizioni di salute, la “nuova” Camera di primo grado aveva iniziato motu proprio un giro di consultazioni della parti (accusato e paesi interessati, ossia Serbia e Paesi Bassi) al fine di concedere a Šešelj la liberazione provvisoria. Di fronte al rifiuto dell’imputato di sottoporre al tribunale una dichiarazione di accettazione delle condizioni poste dai giudici (che il governo serbo pretendeva al fine di poter dare le garanzie richieste dal Tribunale – ciò che le regole di procedura non prevedono), il 10 luglio 2014 la Camera aveva terminato tale procedimento.
Tenuto conto dell’ulteriore e imprevisto prolungamento della detenzione, ma soprattutto del peggioramento delle condizioni di salute di Šešelj (informazione, quest’ultima, ottenuta in forma confidenziale e dunque non scrutinabile da esterni), pochi mesi più tardi la Camera di primo grado aveva di nuovo fatto ricorso ai poteri motu proprio e, senza consultare le parti né richiedere a queste alcun tipo di garanzia, ma riconosciute come prevalenti le esigenze di natura umanitaria, il 6 novembre aveva ordinato (a maggioranza di due giudici contro uno: il giudice Niang, che allegava un’opinione dissenziente) la liberazione provvisoria dell’imputato ai sensi della Rule 65, lett. b), del regolamento di procedura e di prova dell’ICTY. In particolare, secondo il presidente Antonetti e la giudice Lattanzi, tale disposizione autorizzerebbe l’adozione di un provvedimento del genere sulla base di considerazioni di carattere “umanitario” nel caso in cui la Camera si sia fatta convinta che il beneficiario, una volta rimesso in libertà, non ponga alcun “pericolo” per vittime e testimoni o altri individui coinvolti nel procedimento penale internazionale e che, qualora gli sia ordinato, compaia di fronte al collegio giudicante. Motivo per cui, ritenute prevalenti le esigenze di tutela della sua integrità fisica, alla decisione del 6 novembre si perveniva senza imporre a Šešelj di prestare il proprio consenso espresso circa quelle precondizioni, come preteso dal governo serbo nel corso della precedente procedura.
Da questa interpretazione si discostava come detto il giudice Niang, che, pur consapevole delle precarie condizioni di salute dell’imputato e convinto della necessità di garantirgli cure adeguate in un ambiente a lui più familiare (par. 1 dell’opinione dissenziente depositata il 12 novembre), sottolineava come la liberazione provvisoria sia condizionata all’ottenimento di garanzie da parte del beneficiario in merito al rispetto delle due citate condizioni, ossia non interferenza con soggetti coinvolti nel procedimento e comparizione su richiesta della Camera (par. 3). Tenendo conto del fatto che già una volta Šešelj si era rifiutato di fornire tali rassicurazioni (par. 6), e che le stesse autorità serbe avevano condizionato la propria cooperazione proprio all’ottenimento di queste (par. 10), secondo il giudice Niang sarebbe stato necessario quanto meno dar luogo ad una status conference in cui ascoltare le parti e discutere della questione con l’imputato, eventualmente accordandosi su delle “misure alternative” (par. 9), ovvero imporre alla Serbia un obbligo di monitorarne il comportamento e il rispetto delle due condizioni ex Rule 65 (par. 11); che la liberazione (su cui era d’accordo), in una parola, fosse disposta soltanto a fronte dell’adozione di “misure pratiche” che garantissero tale ultimo risultato, con o senza il consenso di Šešelj (par. 13).
Sebbene ai sensi dello Statuto del tribunale ne avesse facoltà, il procuratore Brammertz aveva deciso di non impugnare questo provvedimento, che pertanto era stato prontamente eseguito: il 12 novembre 2014 Šešelj atterrava a Belgrado, accolto da una folla di simpatizzanti del Partito radicale, che intonava cori contro il governo serbo e il primo ministro Vucic.
Nelle settimane successive, a dispetto delle precarie condizioni di salute, il leader nazionalista partecipava a manifestazioni pubbliche, nel corso delle quali, tra le altre, invitava i “patrioti” a marciare contro l’Unione europea e la NATO, annunciava di voler “distruggere” il Tribunale de L’Aia, creato al fine di perseguire i serbi, e soprattutto di non intendere far ritorno volontariamente nella città olandese, se raggiunto da un ordine della Camera in tal senso (cfr. il discorso reso il 15 novembre a Belgrado).
Proprio a causa di queste esternazioni, il 27 novembre seguente il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione (“European Parliament resolution of 27 November 2014 on Serbia: the case of accused war criminal Šešelj”). Dopo aver deplorato il comportamento tenuto da Šešelj nelle settimane successive alla sua liberazione e sottolineato che i suoi discorsi hanno una portata tale da mettere a repentaglio i progressi fatti nella regione balcanica in termini di cooperazione e riconciliazione, al par. 2 l’organo legislativo ha ricordato alla Serbia che, oltre a quelli di cooperazione con il tribunale de L’Aia, in veste di paese candidato all’ingresso nell’Unione ha assunto ulteriori obblighi in materia. In particolare, le autorità statali venivano incoraggiate a “reagire” politicamente e giuridicamente: da un lato condannando ogni manifestazione pubblica di hate speech, e dall’altro indagando al fine di stabilire se l’imputato abbia violato le leggi statali in materia di discriminazione e incitamento alla violenza. Infine, al par. 3 il Parlamento europeo invitava l’ICTY e l’ufficio del Procuratore ad assumere misure finalizzate al riesame dell’esistenza delle condizioni sottostanti al provvedimento del 6 novembre.
Pochi giorni dopo l’approvazione della risoluzione del Parlamento europeo, il 1° dicembre, l’Ufficio del procuratore Brammertz depositava una mozione con cui richiedeva alla Camera di primo grado di revocare il rilascio provvisorio di Šešelj: in primo luogo, poiché dalle attività che quest’ultimo aveva posto in essere nelle ultime settimane si sarebbe potuto dedurre che le sue condizioni non fossero poi così gravi (par. 4); e in secondo luogo, poiché questo avrebbe consentito al Tribunale di fissare un’udienza e richiedere che l’imputato prestasse il proprio consenso ad un nuovo provvedimento dello stesso tenore, garantendo il rispetto delle precondizioni di cui alla citata Rule 65 del regolamento di procedura e di prova (par. 5).
Per tutta risposta, il 13 gennaio 2015 la Camera di primo grado respingeva (all’unanimità) la richiesta per due ordini di ragioni, le une di natura procedurale – poiché l’iniziativa del Procuratore si sarebbe dovuta fondare sulla presentazione di circostanze nuove, essendo finalizzata ad ottenere un riesame del provvedimento del 6 novembre (par. 10); le altre di natura sostanziale – non avendo l’imputato posto un ostacolo alla giustizia né cercato di contattare o messo altrimenti in pericolo i testimoni o le vittime (par. 11), ma essendosi limitato a dichiarazioni su futuri comportamenti ipotetici, senz’altro fuori luogo, ma che di per sé non avrebbero potuto costituire una violazione delle suddette precondizioni (paragrafi 12-13). Alla decisione veniva annessa un’opinione concorrente del giudice Niang, il quale, pur precisando di rimanere convinto che il 6 novembre fosse stata accolta un’interpretazione erronea della Rule 65 (par. 3), sottolineava come – non avendo questi esperito le vie di ricorso avverso quel primo provvedimento – il Procuratore fosse tenuto in questa fase a sottoporre al collegio delle “prove nuove” che, sole, avrebbero potuto giustificare un riesame del provvedimento iniziale (par. 8).
A tale ultima decisione si opponeva il procuratore, che il 20 gennaio proponeva appello poiché la Camera avrebbe erroneamente applicato la legge, non avendo verificato se le precondizioni per la liberazione provvisoria fossero state rispettate da Šešelj e se, alla luce dei fatti nuovi (ossia i discorsi resi nelle manifestazioni a cui aveva preso parte e in occasioni pubbliche), fosse ancora legittimo sottoporre la liberazione al rispetto delle “condizioni minime” di cui alla Rule 65 (motivi così riassunti al par. 5 della decisione della Camera d’appello).
A conclusione di questo tortuoso iter, il 30 marzo scorso il collegio giudicante decideva (a strettissima maggioranza, essendo risultato decisivo il voto del presidente tanzaniano Sekule) di accogliere il ricorso. Su questa difficile decisione, che rappresenta la prima pronuncia su un’istanza di questo tipo, appare utile svolgere una serie di considerazioni.
Nell’ordinanza del 30 marzo veniva infatti innanzitutto analizzato lo “standard” del riesame e il diritto applicabile: in questo senso, appare particolarmente significativa la precisazione in base a cui nell’ambito di un “appello interlocutorio” non si può riesaminare de novo la prima decisione della Camera di primo grado ma, essendo quest’ultima di natura discrezionale, ci si deve limitare a verificare se tale discrezionalità sia stata correttamente esercitata (par. 10); con l’effetto che sulle parti ricadrebbe l’onere di dimostrare che sia stato commesso un “errore riconoscibile”, e cioè che la decisione sia stata basata sull’erronea applicazione della legge o su una conclusione di fatto apertamente sbagliata, o che la decisione stessa sia talmente ingiusta e irragionevole da costituire un abuso di discrezionalità. La Camera d’appello potrà poi verificare se sia stato dato peso a elementi estranei o irrilevanti, o se al contrario non ne sia stato dato a considerazioni che avrebbero dovuto incidere sulla decisione (par. 11).
In merito alle precondizioni di cui alla Rule 65, lett. b), del regolamento di procedura e di prova, i giudici di secondo grado sottolineavano invece che queste sarebbero da intendersi come concorrenti e non alternative (par. 13) e che, essendo il relativo accertamento di tipo prognostico, non sarebbe richiesta soltanto una valutazione sulla loro ricorrenza al momento dell’assunzione della decisione, ma anche – per quanto possibile – rispetto a quello successivo, in cui il Tribunale dovesse ordinare all’imputato di presentarsi in aula (par. 14).
Tutto ciò premesso, la maggioranza del collegio riteneva di accogliere il primo motivo di appello poiché la Camera di primo grado aveva commesso un errore di diritto, consistente nel non essersi preoccupata di verificare se i “fatti nuovi” invocati dal Procuratore (le dichiarazioni rese dopo il 12 novembre) fossero sufficienti ad “erodere” le precondizioni per il rilascio temporaneo dell’accusato (par. 18). Sostenevano a tal proposito i giudici che “nessuna ragionevole Camera di primo grado” avrebbe potuto concludere, all’esito di un simile accertamento, che la prima delle due precondizioni (non entrare in contatto e non porre alcun pericolo per vittime e testimoni o altri individui coinvolti nel procedimento internazionale) non fosse stata violata dai discorsi di Šešelj, e che fosse perciò opportuno revocare il provvedimento del 6 novembre 2014 e convocare una nuova udienza, nel corso della quale ascoltare tutte le parti e addivenire ad un nuovo accertamento sull’esistenza dei requisiti per un secondo rilascio provvisorio e sulle condizioni (ex lett. c della Rule 65) a cui eventualmente sottoporlo (par. 19).
La Camera d’appello ordinava perciò a quella di primo grado di revocare l’ordinanza di liberazione provvisoria dell’imputato e di ascoltare le parti allo scopo di valutare se fosse appropriato assumere una nuova, analoga decisione (e a quali condizioni) (par. 20).
Alla decisione era allegata un’opinione dissenziente e concorrente del giudice russo Tuzmukhamedov e di quello togolese Afande, su alcuni passaggi della quale è opportuno soffermarsi.
I giudici di minoranza si concentravano innanzitutto su un aspetto procedurale: dal momento che l’istanza del Procuratore era finalizzata a contestare la mancata revoca del provvedimento del 6 novembre 2014 da parte della Camera di primo grado, a loro parere non ci si sarebbe dovuti concentrare sulla correttezza della prima decisione (rimasta incontestata), ma soltanto su quella del 13 gennaio 2015 (par. 4). Quanto alla specifica verifica posta in essere dalla Camera di appello, poi, che si era fondata sull’accoglimento di un’interpretazione estensiva della norma contenuta nella lett. d) della Rule 65 del regolamento di procedura e di prova (secondo cui ogni decisione assunta dalla Camera di primo grado ai sensi della Rule 65 è appellabile), si sottolineava che – anche a voler sottoscrivere quest’interpretazione – il potere di “riconsiderare” i fatti alla base del primo provvedimento resterebbe pur sempre attribuito ai soli giudici di primo grado (par. 7). Ammesso che questi ultimi avessero commesso un errore di diritto, consistente nel non verificare se alla luce dei fatti nuovi le condizioni ex Rule 65, lett. b), fossero ancora rispettate, il collegio di secondo grado avrebbe perciò dovuto limitarsi a chiedere alla Camera di primo grado di riconsiderare la propria valutazione (paragrafi 9 e 17-18).
I giudici Tuzmukhamedov e Afande contestavano inoltre l’esito dell’accertamento (indebitamente) posto in essere, in sede di riesame, in ordine al rispetto da parte di Šešelj della prima precondizione. Le sue affermazioni, infatti, per quanto fuori luogo, si sarebbero potute invocare soltanto nel caso in cui ai giudici fosse richiesta una valutazione di tipo prognostico, e dunque astratta; essendo al contrario tenuti a giudicare in concreto, questi non avrebbero potuto prenderle in considerazione come elemento sulla cui base stabilire con certezza che l’accusato avrebbe violato un ordine di comparizione e costretto le autorità ad eseguirlo con la forza (par. 11).
In conclusione, la decisione assunta il 30 marzo non sembrerebbe trovare giustificazione: né dal punto di vista procedurale, dal momento che in sede di riesame la Camera d’appello non è competente a condurre un nuovo accertamento sui fatti che avevano giustificato il provvedimento di liberazione temporanea; e tantomeno dal punto di vista sostanziale, non essendo stato dimostrato, attraverso la sottoposizione al collegio di fatti nuovi, che fossero nel frattempo cessate o cambiate le esigenze umanitarie alla base della sua liberazione (su tale ultimo aspetto, cfr. i paragrafi 15 e 24 dell’opinione dissenziente).
In conseguenza della discutibile decisione del 30 marzo, lo scorso 25 maggio la Camera di appello è tornata sulla questione su nuova istanza del Procuratore, ordinando alle autorità serbe la consegna di Šešelj, iniziativa che solleva alcuni problemi di natura giuridica.
Se il primo ministro Vucic ha affermato che il Tribunale de L’Aia dovrebbe spiegare perché le condizioni di salute non sarebbero più un motivo sufficiente a giustificare la permanenza dell’accusato a Belgrado, non essendo il suo governo intenzionato ad avallare decisioni “immorali”, il ministro della giustizia Selakovic ha sottolineato che gli organi statali adotteranno iniziative conformi “alle leggi statali e al diritto internazionale”. Dal canto loro, il ministro responsabile per la cooperazione con l’ICTY, Rasim Ljaijc, e il rappresentante del governo incaricato di seguire la procedura, Sasa Obradovic, hanno evidenziato che la Serbia è tenuta ad agire soltanto a fronte dell’emissione di un mandato d’arresto da parte del tribunale internazionale, che sulla base della legge statale sulla cooperazione con questo dovrà superare il vaglio di un giudice statale prima di poter essere eseguito.
Quanto a Vojislav Šešelj, recentemente tornato alla ribalta delle cronache per aver dato alle fiamme una bandiera croata e aver minacciato in un’intervista di entrare in Croazia alla guida di un carro armato per liberare la Krajina, sembra che, informato della recente iniziativa dell’ICTY, abbia sibillinamente affermato che non intende tornare volontariamente nel centro di detenzione del Tribunale e che contesterà la richiesta di estradizione che eventualmente dovesse essere inoltrata alla Serbia (anche sulla base della violazione del diritto al giusto processo che avrebbe subito a causa della lunghissima detenzione preventiva a cui è stato sottoposto in questi anni), ma che d’altro canto non ha intenzione di fuggire o nascondersi. Secondo fonti giornalistiche, infine, nelle ultime settimane Šešelj sarebbe anche stato sottoposto ad un’operazione al colon.