Il Consiglio Affari Interni trova l’accordo sulla ripartizione di 55.000 migranti, ma gli obiettivi della Commissione non sono raggiunti


Il Consiglio straordinario dei ministri degli interni dei 28 paesi dell’UE riunitosi lo scorso 20 luglio è riuscito, dopo più di tre mesi di negoziati, a raggiungere un accordo per l’accoglienza e la ripartizione tra gli Stati membri di poco meno di 55.000 migranti bisognosi di protezione internazionale nei prossimi due anni. Di questi, 32.256 sono già presenti sul “territorio” dell’UE, ed in particolare in Italia ed in Grecia; mentre altri 22.504, soprattutto di nazionalità siriana, sono ospitati in campi profughi al di fuori del “territorio” europeo.

Davanti a questi numeri, come sottolineato dalle dichiarazioni del commissario europeo per l’immigrazione, gli affari interni e la cittadinanza Dimitris Avramopoulos, “it may be difficult not to feel disappointed”: l’intesa raggiunta, infatti, non rappresenta la piena attuazione del c.d. “Piano Juncker”, ossia il piano della Commissione europea contenuto nell’Agenda europea sulla migrazione presentata in data 13 maggio. Lo schema elaborato nel documento in oggetto prevedeva infatti per l’UE l’obiettivo di arrivare ad accogliere un totale di 60.000 migranti nei prossimi due anni, attraverso due diversi meccanismi.

Da un lato, un sistema di reinsediamento (“resettlement”) di 20.000 “sfollati” con evidente bisogno di protezione internazionale, non ancora presenti sul “territorio” europeo (soprattutto siriani, ospitati nei campi in Turchia e Giordania), al fine di far fronte agli obiettivi dall’UNHCR per l’Unione europea di accogliere 20.000 rifugiati l’anno da qui al 2020. Tale programma, come indicato nell’Agenda, è stato inserito dalla Commissione all’interno di una raccomandazione presentata lo scorso 8 giugno 2015. Esso è rivolto a tutti gli Stati membri dell’UE, e prevede quote di distribuzione basate su criteri quali PIL, popolazione, tasso di disoccupazione e numero passato di richiedenti asilo, tenendo conto degli sforzi già compiuti dagli Stati membri su base volontaria. A sostegno del programma, il bilancio dell’UE fornirà un finanziamento supplementare di 50 milioni di euro per il 2015 e 2016. È importante rilevare tuttavia che, come si evince dallo strumento giuridico adottato (la raccomandazione), il piano di reinsediamento non ha natura obbligatoria: per quanto tutti gli Stati membri siano esortati dalla Commissione a prendere parte a questo sforzo comune, la scelta di aderire al programma ha natura volontaria.

Accanto ad esso, l’Agenda prevedeva un sistema obbligatorio di ricollocamento (“relocation”) nei paesi dell’Unione di immigrati già presenti sul “territorio” europeo, in particolare in Italia e Grecia, con evidente bisogno di protezione internazionale. La base giuridica della proposta, sottoposta dalla Commissione al Consiglio in data 27 maggio 2015, è l’art. 78, par. 3, TFUE, per cui “[q]ualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati”. Anche in questo caso i parametri si basano, tra le altre cose, su PIL, popolazione, tasso di disoccupazione e numero passato di richiedenti asilo (si veda l’allegato alla proposta); ma rispetto al sistema di reinsediamento, le quote aumentano perché Regno Unito, Irlanda e Danimarca – che in virtù di differenti meccanismi possono decidere, a seconda dei casi, di partecipare all’adozione o all’applicazione della misure relative allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia sulla base di clausole di opting-in, ma in assenza di tale espressa richiesta non ne sono vincolate – non sono calcolate all’interno dello schema di ripartizione.

Che questo ambizioso piano proposto dalla Commissione europea, soprattutto in virtù della natura obbligatoria del meccanismo di ricollocamento in esso previsto, potesse dare luogo a posizioni contrastanti degli Stati membri è stato evidente sin dalle prime riunioni dei Capi di Stato e di governo e dei ministri degli interni dei 28: già al Consiglio affari interni del 15-16 giugno 2015, per quanto si fosse preso atto della necessità di prestare supporto agli Stati membri “in prima linea” che subiscono maggiormente la pressione migratoria, il ministro dell’interno lettone Rihards Kozlovskis ha espresso le convinzioni di un numero crescente di Stati allorché ha ammesso che “permangono opinioni diverse in merito ai dettagli delle proposte della Commissione sul ricollocamento dei richiedenti asilo. Dobbiamo ancora lavorare per raggiungere un accordo che possa essere concretamente attuato. La soluzione deve essere pratica”.

Successivamente, in occasione del Consiglio europeo tenutosi a Lussemburgo il 25 e 26 giugno, il “fronte del no” alla proposta di quote di ricollocamento obbligatorie formulata dalla Commissione si è allargato ulteriormente, includendo sia quei paesi, come la Spagna, in disaccordo con il sistema ed i criteri di ripartizione dei migranti, che non terrebbero adeguatamente conto del tasso di disoccupazione nel paese; sia quelli preoccupati che l’afflusso di migranti dal Sud si vada a sommare a quello, per essi già rilevante, proveniente da Est. Il riferimento è in particolare ai paesi baltici, alla Polonia, alla Repubblica Ceca e, in misura anche maggiore, all’Ungheria, il cui governo, nei giorni precedenti al Consiglio europeo di Lussemburgo, indicando come ragione l’ingente afflusso di migranti irregolari nel paese (stime del governo parlavano di 54.000 tra richiedenti asilo e immigrati economici), aveva prima annunciato la costruzione di un muro lungo il confine con la Serbia, ed in seguito si era rifiutato di farsi carico dell’accoglienza e dell’esame della domanda di protezione degli individui che avessero varcato illegalmente la frontiera ungherese, lasciandoli invece transitare verso l’Austria e “trasferendo” così ad essa tale onere.

A fronte di questi disaccordi, secondo indiscrezioni di stampa, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che in un comunicato rilasciato alla chiusura della prima sessione del Consiglio europeo aveva ammesso come questo avesse discusso a lungo il tema delle migrazioni ma fosse ancora alla “ricerca di un nuovo consenso europeo sulla migrazione”, avrebbe avanzato una proposta alternativa, sostenendo l’idea di un meccanismo basato sulla volontarietà delle quote di ricollocamento, che in tal modo non sarebbero state imposte ai paesi più riluttanti. Tale proposta avrebbe suscitato reazioni accese non solo da parte del premier italiano Renzi, ma anche dell’alto rappresentante Mogherini e del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, che avrebbero fortemente criticato il compromesso formulato a Lussemburgo.

In effetti, analizzando le conclusioni del Consiglio europeo di Lussemburgo in oggetto, esse si limitano a confermare gli obiettivi, senza però indicare misure concrete per la realizzazione di essi: si fa riferimento infatti ad un raggiunto accordo su “misure correlate, intese ad assistere 60.000 persone”, tra cui “il ricollocamento temporaneo ed eccezionale, su un periodo di due anni, dagli Stati membri in prima linea Italia e Grecia ad altri Stati membri, di 40.000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale, alla quale parteciperanno tutti gli Stati membri”; l’adozione da parte del Consiglio entro fine luglio di una decisione per consenso “sulla distribuzione di tali persone”; nonché “la creazione di strutture di accoglienza e prima accoglienza negli Stati membri in prima linea con l’attivo sostegno degli esperti degli Stati membri e dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO), di Frontex e Europol, al fine di assicurare prontamente identificazione, registrazione e rilevamento delle impronte digitali dei migranti (c.d. ‘punti di crisi’ o ‘hotspots’ )” distinguendo così coloro che hanno bisogno di protezione internazionale da coloro che non ne hanno. Il problema pareva, insomma, venire ulteriormente rimandato, a fronte di divisioni non superabili, alla successiva riunione dei Ministri degli interni.

Si è così arrivati al Consiglio straordinario dei ministri degli interni dello scorso 20 luglio, la cui intesa conferma di fatto le divisioni emerse nel corso delle riunioni precedenti. I numeri sono esemplificativi: dei 40.000 migranti arrivati in Grecia ed in Italia dal 15 aprile scorso, che il piano della Commissione mirava a ricollocare negli Stati membri nei prossimi due anni, l’accordo ne copre poco più di 32.000. Questo perché, dei 23 paesi che contribuiscono alla ripartizione operata dal meccanismo (vanno escluse, oltre ad Italia e Grecia, mete di arrivo, Regno Unito, Irlanda e Danimarca, per le ragioni suindicate) la maggior parte ha deciso di accettare un numero di ricollocamenti minore a quello indicato nei piani della Commissione (sono i casi di Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Spagna); altri hanno scelto di non partecipare alla ripartizione (Ungheria ed Austria); mentre pochi hanno soddisfatto le richieste della Commissione (Francia, Romania, Paesi Bassi, Belgio, Svezia); e la sola Germania si è impegnata a farsi carico di un numero di migranti maggiore di quanto proposto da Bruxelles.

Questo insuccesso del piano delle quote di ricollocamento è stato in parte compensato dalla risposta positiva data dagli Stati al piano di reinsediamento dei profughi ospitati in campi fuori dal “territorio” europeo, verosimilmente in virtù del carattere volontario e dell’assistenza finanziaria fornita dalla Commissione agli Stati ad esso aderenti. Come riportato dal commissario Avramopoulos nei remarks successivi all’accordo, “[o]n resettlement, we got the result we were looking for. We have an agreement on the resettlement of 22,504 refugees in need of protection from outside of Europe. This is the highest number ever achieved”. Poiché tale numero, anche grazie all’adesione volontaria degli Stati associati al sistema di Schengen (Norvegia e Islanda) e dell’Irlanda, ha superato l’obiettivo di accoglienza di 20.000 persone, gli Stati “agreed on the principle that additional resettlement places will transferred to relocation”, colmando così in parte lo scarto tra gli obiettivi di ricollocamento ed i risultati raggiunti.

In definitiva, il bilancio appare “misto”. Un compromesso tra gli Stati membri è stato raggiunto: un risultato niente affatto scontato, se si tiene conto che le posizioni di alcuni Stati membri circa la proposta di ricollocamento obbligatorio avanzata dalla Commissione sono rimaste agli antipodi nel corso di tutto il processo negoziale. L’accordo produrrà inoltre i primi risultati a breve: i primi ricollocamenti da Italia e Grecia potranno cominciare da ottobre 2015, e questo è certamente un risultato estremamente importante per i due paesi “in prima linea”. Inoltre, vale la pena riprendere ancora una volta le parole del commissario europeo per l’immigrazione, gli affari interni e la cittadinanza Avramopoulos, che, pur essendosi detto deluso dai numeri, ha riconosciuto che “we should not underestimate the important and historical step forward we have taken. […] This is the first time in the history of European migration policy that relocation efforts will be undertaken”. Bisogna infine ricordare come il piano di ricollocamento faccia riferimento ad un periodo biennale: ciò significa che, nel giro di sei mesi, la Commissione e gli Stati membri si incontreranno di nuovo per discutere del tema e cercare un soluzione che permetta di allocare i 7.744 migranti bisognosi di protezione entro dicembre 2015, raggiungendo in tal modo l’obiettivo prefissato di arrivare ad accogliere 40.000 persone.

Tuttavia, il raggiungimento del compromesso sopra descritto ha comportato costi elevati, forse anche più di quanto il numero dei migranti che gli Stati membri non sono riusciti a ricollocare faccia intendere. Infatti, come sottolineato dalla stampa e dall’opinione pubblica più filo-europea, nonché dalle già citate posizioni espresse da Juncker e dalla Mogherini, ad uscire sconfitta è l’idea di cooperazione e solidarietà tra paesi europei, nonché tra Stati membri ed istituzioni, in situazioni di emergenza. Una sconfitta di cui il fallimento dell’implementazione del meccanismo di ricollocamento obbligatorio elaborato dalla Commissione può essere considerato il simbolo: il sistema di fatto volontario a cui si è pervenuti in Consiglio, che permette a diversi governi di discostarsi, in tutto o in parte, dai criteri e dagli obiettivi elaborati in sede europea, può del resto essere interpretato come un’ulteriore espressione della mancanza negli stessi governi degli Stati membri di un’ideale europeo, cui sono stati anteposti, ancora una volta, i singoli interessi nazionali.

A fronte di tale “sconfitta simbolica” la Commissione, come annunciato da Avramopoulos, farà nei prossimi mesi un nuovo tentativo di “put forward a proposal for a fixed emergency system to address future emergencies”, sulla base dell’idea che “[s]olidarity is one of the basic principles of the European Union. It is both a moral and a legal commitment to ensure that Member States stand by each other in times of need”.