
Con la risoluzione 2235 del 7 agosto 2015, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha deciso nuovamente di intervenire in merito al conflitto civile siriano, in particolare sul possibile impiego, recentemente accertato, di armi chimiche e batteriologiche nel territorio della Repubblica araba di Siria. Il Consiglio, infatti, richiamando diverse fonti – quali principalmente il protocollo di Ginevra del 1925 concernente il divieto di impiego in guerra di gas asfissianti, tossici e similari e di mezzi batteriologici, la convenzione di Parigi del 1993 sul divieto di produzione, commercio ed uso di armi chimiche, e prendendo spunto dalle proprie risoluzioni 1540 del 2004, 2118 del 2013 e 2209 del 2015 – ha reputato opportuno procedere mediante la creazione di una missione investigativa ad hoc al fine di accertare ulteriori casi di impiego di armi chimiche e soprattutto per cercare di delineare le responsabilità di tali atti.
Precedentemente a questa risoluzione la questione dell’uso delle armi chimiche all’interno del conflitto siriano era già stata affrontata a diverso titolo da parte delle Nazioni unite. Il Segretario generale, infatti, aveva incaricato nel 2013 il Direttore generale dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPWC) di avviare una missione di investigazione e raccolta dati – di concerto con l’Organizzazione mondiale della sanità – al fine di accertare quando tali armi fossero state usate e in quale misura all’interno del territorio della Repubblica araba di Siria. Il rapporto dell’Ufficio per il disarmo delle Nazioni unite aveva così individuato un numero rilevante di casi tra il 2012 e il 2014 nei quali gas tossici e armi batteriologiche sono stati effettivamente impiegati. Tale conferma indusse dunque buona parte della comunità internazionale a minacciare un intervento armato all’interno del conflitto qualora la Repubblica araba di Siria non avesse sottoscritto e ratificato il protocollo di Ginevra del 1925 e non avesse provveduto alla comunicazione e distruzione dei siti militari contenenti tali armamenti sotto il controllo delle Nazioni unite – processo in effetti avvenuto e conclusosi nel 2014.
Da notare è anche come la risoluzione 2235 faccia riferimento alle precedenti risoluzioni 1540 (2005), 2118 (2013) e 2209 (2015). Rispettivamente, la risoluzione 1540 ha sottolineato come l’uso e il commercio di armi chimiche (o anche la sola sponsorizzazione di Stati o gruppi di insorti adoperanti tali armi) costituisca una minaccia alla sicurezza globale, situazione che avrebbe potuto rendere necessario un intervento del Consiglio di sicurezza ex capitolo VII della Carta. Essa inoltre obbliga tutti gli Stati membri delle Nazioni unite ad adottare le misure necessarie affinché sia il più possibile evitato il proliferare di tali armamenti e ne sia incoraggiata sia la segnalazione sia la distruzione. Le risoluzioni 2218 e 2209, d’altro canto, hanno fatto chiarezza intorno alla delicata questione di come dovesse svolgersi il processo di raccolta, trasferimento e distruzione di tali arsenali dal momento che il protocollo di Ginevra del 1925 vieta a tutti gli Stati membri di possedere e trasferire tali armamenti, oltre a ribadire che il loro uso avrebbe direttamente avviato l’intervento del Consiglio di sicurezza ex capitolo VII della Carta. Aspetto comune ad entrambe è la piena fiducia del Consiglio di sicurezza intorno alla missione di verifica e raccolta dati dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW), che è stata così “eletta” a principale fonte di informazioni per appurare l’uso di tali armamenti e delineare le possibili responsabilità.
La risoluzione 2235 segna un concreto passo in avanti delle Nazioni unite a favore di una soluzione del conflitto civile siriano. Nell’impossibilità di porvi fine mediante soluzioni diplomatiche o militari, il Consiglio di sicurezza è riuscito a richiamare l’attenzione sulle reazioni che vi sarebbero da parte della Comunità internazionale qualora l’uso di armi chimiche venisse ulteriormente confermato ed accertato. A motivo di ciò, infatti, la risoluzione in analisi istituisce un Comitato investigativo (Joint Investigative Mechanism) con il compito di identificare e accertare se vi siano gruppi o fazioni che abbiano adoperato, sponsorizzato, prodotto o che siano in altri termini coinvolti nell’uso di armi chimiche o batteriologiche, al fine di accertare le rispettive responsabilità e definire nello specifico la questione.
Analizzando più nel dettaglio la risoluzione è possibile, infatti, cogliere alcuni aspetti peculiari degni di considerazione. Se, da una parte, la risoluzione del Consiglio di sicurezza aiuta a risolvere l’empasse diplomatico che ha finora arrestato diverse possibili soluzioni al conflitto (come la formazione di un’ampia coalizione internazionale contro lo Stato islamico oppure l’instaurazione di un dialogo costruttivo con il presidente Assad), dall’altra, presenta già in nuce forti limitazioni. In primis l’estensione geografica oggetto di investigazione è limitata, in quanto si specifica che il territorio considerato è unicamente quello all’interno della Repubblica araba di Siria. Tale aspetto ostacola alquanto l’effettiva operabilità della missione, dal momento che le milizie dello Stato islamico occupano un’ampia superficie del territorio sia siriano sia iracheno. La risoluzione quindi estromette automaticamente quest’ultima parte di territorio dall’oggetto della missione, territorio al cui interno potrebbero celarsi rilevanti indizi sull’avvenuto uso di tali armi. In secundis appare alquanto inverosimile che la missione investigativa condotta dalle Nazioni unite possa accedere ai luoghi ora occupati dalle milizie dello Stato islamico, le quali formalmente non riconoscono alcuna autorità internazionale. Tale aspetto ridurrebbe così ulteriormente l’efficacia dell’operazione intrapresa dal Consiglio di sicurezza e si incentrerebbe nell’azione investigativa nei confronti della sola Repubblica di Siria. In terzo luogo, il procedimento di segnalazione di un’eventuale uso di armi chimiche e di ricostruzione delle responsabilità risulta poco snello e non assicura una rapida azione di intervento. Il Comitato investigativo, infatti, ha il solo compito di inviare il materiale raccolto sul campo all’OPCW. Quest’ultimo, una volta valutati i dati ricevuti ed espresso un giudizio in merito alle eventuali responsabilità, deve inoltrare il rapporto al Consiglio di sicurezza, unico organo titolato quindi ad attribuire responsabilità internazionali in merito all’utilizzo di tali armi.
Interessante appare inoltre il paragrafo 7 della risoluzione 2235, il quale obbliga tutte le parti belligeranti attive nel conflitto alla collaborazione, consentendo, fra l’altro, il passaggio sul proprio territorio di persone e mezzi necessari alla raccolta e verifica dei dati. La collaborazione tra le diverse fazioni e l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche include anche l’accesso a tutti i siti e le basi militari coinvolti negli scontri, al fine di poter estendere il controllo nella misura più ampia possibile. Tuttavia tale aspetto appare – almeno per le fazioni di insorti quali Al-Nusra e lo Stato islamico di Siria e Iraq – poco prospettabile in termini reali. Il Comitato organizzativo ha anche il compito di coordinare la missione di rilevazione e raccolta dei dati tra le parti belligeranti attraverso un comune canale di comunicazione, anche questo poco realizzabile dal momento che le stesse parti in causa hanno manifestato la volontà di non avere alcun tipo di relazione reciproca. Una soluzione a queste problematiche sembra essere contenuta del paragrafo 8, laddove si specifica come tutti gli Stati membri delle Nazioni unite hanno il dovere di collaborare con le fazioni belligeranti al fine di promuovere un completo accesso al proprio territorio da parte del Comitato investigativo. Tale soluzione permetterebbe così a tutti gli Stati che – più o meno ufficialmente – finanziano l’insurrezione siriana di poter avere un certo grado di credibilità nel facilitare l’operabilità della missione, intercedendo presso il gruppo di ribelli affinché consentano l’accesso al proprio territorio.
Parallelamente all’azione investigativa del Comitato facente capo all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, le Nazioni unite hanno anche avviato nel 2011 – tramite il Consiglio dei diritti umani – un’ulteriore missione sul territorio siriano al fine di valutare la violazione di diritti umani nel caso di utilizzo di armi chimiche e batteriologiche. Il rapporto redatto dal Consiglio nel febbraio 2014 ha confermato l’uso del gas Sarin in diverse occasioni, tra cui la più importante durante l’attacco di Khan Al-Assal nel 2013 che causò un considerevole numero di vittime. Tale occasione tuttavia ha permesso di appurare come in diversi successivi attacchi fosse stata usata la stessa tipologia di armamento proveniente dal medesimo deposito militare, confermando anche la mancata possibilità da parte del governo di Damasco di controllare i propri siti di stoccaggio di armi chimiche. Il rapporto, pertanto, ha confermato la violazione di numerosi diritti umani collegati all’uso delle armi chimiche all’interno del conflitto civile siriano, dunque confermato ulteriormente i dati raccolti dalla missione dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche.
Queste due missioni parallele così come la rinnovata azione del Consiglio di sicurezza verso una tale delicata questione hanno permesso di poter avere un quadro più chiaro sull’intera vicenda, la quale presenta ancora molteplici zone d’ombra. In particolare appare quanto mai difficile poter attribuire specifiche responsabilità alle singole fazioni in lotta per una pluralità di ragioni: dall’impossibilità di determinare quale gruppo abbia il controllo (effettivo e duraturo) di molteplici zone di territorio contese, alla difficoltà di appurare quale fazione effettivamente abbia fatto ricorso all’uso di tali armamenti e in che misura. Appare invece verosimile la ricostruzione effettuata dall’OPCW in relazione all’origine di tale armi, le quali in buona parte sono da ricondurre all’esercito siriano. Quest’ultimo infatti, in assenza dei vincoli derivanti dal protocollo di Ginevra del 1925, non aveva precedentemente l’obbligo di distruggere tali arsenali i quali, situati nei territori oggetto di controllo degli insorti, sono stati così violati e le armi rese disponibili per l’uso e il contrabbando. Risulta quindi, come già espresso più volte dal Consiglio di sicurezza nel corso degli ultimi anni (in particolare nelle citate risoluzioni 1540 e 2218), che le armi chimiche e batteriologiche costituiscano ancora oggi una forte minaccia alla sicurezza globale, nonostante la firma e ratifica del protocollo di Ginevra da parte della quasi totalità degli Stati, eccetto Egitto, Israele e Nord Corea. Tali considerazioni sono in particolare richiamate dalle due relazioni sopramenzionate in connessione ai molteplici eccidi già avvenuti nel solo suolo siriano nel corso dei tre anni di conflitto civile all’interno del paese. Sebbene infatti il governo di Damasco abbia già provveduto alla pressoché totale distruzione dei suoi arsenali sotto controllo delle Nazioni unite, rimane ancora sconosciuta la destinazione di quegli armamenti chimici sottratti al controllo durante gli sviluppi di questo conflitto.