Una nuova condanna per lo Stato italiano da parte della Corte di Strasburgo: la violazione dell’art. 8 nel caso Oliari e altri c. Italia


A distanza di quasi quattro anni dalla presentazione dei ricorsi, il 21 luglio 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nella sentenza relativa al caso Oliari e altri c. Italia. I sei ricorrenti hanno adito la Corte in due ricorsi separati (nn. 18766/11 e 36030/11, uniti con decisione della Camera del 3 dicembre 2013) e hanno contestato l’impossibilità di procedere ad unirsi con il vincolo matrimoniale: pertanto, hanno chiesto alla Corte di pronunciarsi su un’eventuale violazione da parte dell’Italia dell’art. 8 CEDU, che tutela la vita privata e familiare degli individui.

Per procedere all’esame delle doglianze, la Corte ha dovuto in primo luogo analizzare il contesto normativo interno. Come si evince anche dalle osservazioni fatte dal governo italiano, l’assenza di un quadro normativo volto a regolamentare le unioni civili, e in particolare quelle omosessuali, rappresenta da molti anni una questione ampiamente discussa in Italia. Nonostante i numerosi dibattiti parlamentari e le campagne di attivisti, le coppie non sposate (siano esse omosessuali o eterosessuali) sono ad oggi prive di un riconoscimento giuridico che permetta loro di avere gli stessi diritti e i medesimi doveri delle coppie unite in matrimonio. Infatti, come sottolineato nel par. 42 della sentenza, il diritto interno non fornisce alcuna valida alternativa al matrimonio, né per le coppie eterosessuali, né per quelle omosessuali, che non sia una semplice attestazione simbolica (tra queste, l’iscrizione nei cosiddetti registri delle unioni civili). Tuttavia, ciò significa che, mentre le coppie di sesso differente hanno la possibilità di ricorrere all’unione matrimoniale per veder riconosciuti i loro diritti, tale opzione è preclusa per le coppie dello stesso sesso, che sono sostanzialmente prive di qualsiasi riconoscimento giuridico. La lacuna dell’ordinamento italiano è particolarmente grave, perché ad una parte delle coppie non sposate è precluso anche l’accesso al matrimonio ed esse non hanno dunque alcuna alternativa alla “semplice” convivenza. Nelle osservazioni fornite alla Corte, il governo italiano, a tal proposito, ha sottolineato l’esistenza dei c.d. registri delle unioni civili che sono stati attivati presso 155 comuni italiani e ai quali possono accedere anche le coppie omosessuali. Però, tale possibilità, meramente simbolica, non conferisce agli appartenenti alla coppia alcun diritto né dovere sul piano giuridico, in quanto costituisce un’iniziativa nata principalmente con l’intento di rilevare dati statistici. E infatti, tali registri non permettono ai membri della coppia di veder riconosciuti dei diritti in merito, ad esempio, all’eredità, alla divisione dei beni, oppure all’accesso alla cartella medica del proprio compagno (o compagna); né, tantomeno, sanciscono i doveri di ciascun partner.

La necessità di dare vita ad un quadro normativo che regoli le unioni civili era stata espressa già dalla Corte costituzionale italiana nella sentenza 138 del 15 aprile 2010. La Corte si è pronunciata, infatti, sulla questione, proprio a seguito di un rinvio da parte della Corte d’appello di Trento nel caso di uno dei ricorrenti che hanno poi adito la Corte di Strasburgo (il sig. Oliari) il quale, appunto, chiedeva la possibilità di sposarsi con il proprio compagno. La Corte d’appello, pur confermando che la legge non consente un’unione di questo tipo, ha ritenuto necessario, mediante l’ordinanza n. 248 del 9 luglio 2009, chiedere alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla legittimità degli artt. 93, 96, 98, 107, l08, 143, 143-bis e 156-bis del codice civile, che disciplinano taluni aspetti riguardanti l’istituto matrimoniale. La Corte ha tuttavia rigettato l’istanza del ricorrente, ribadendo che le disposizioni del codice civile contestate nel caso in oggetto (v. par. 15 della sentenza Oliari) non estendono la possibilità di contrarre matrimonio anche alle coppie omosessuali: manca, infatti, una disposizione legislativa che autorizzi un’unione di questo tipo. La Corte tuttavia, sempre nella sentenza 138/2010, ha sottolineato la necessità di fornire alle coppie non sposate un riconoscimento nell’ordinamento legislativo italiano affinché la loro relazione possa essere opportunamente regolamentata giuridicamente; tale riconoscimento permetterebbe anche di chiarire in maniera inequivocabile i diritti e i doveri dei partners. D’altra parte, poiché la Corte ha dovuto constatare che è una prerogativa del Parlamento legiferare, non ha potuto far altro che sollecitare l’attenzione dell’organo legislativo sulla questione.

Dopo aver analizzato il contesto interno, la Camera è passata all’esame dei ricorsi. In primo luogo, tra le obiezioni preliminari, essa ha stabilito che, benché non tutti i ricorrenti avessero esperito integralmente le vie di ricorso interne, era già riscontrabile un orientamento consolidato della giurisprudenza in materia. La Corte costituzionale, infatti, si era già pronunciata negativamente sulla questione, sia nella ricordata sentenza 138/2010, sia in altre due successive pronunce (276/2010 del 7 luglio 2010 e 4/2011 del 16 dicembre 2010). Pertanto, il criterio di ricevibilità relativo al previo esaurimento dei ricorsi interni è stato considerato soddisfatto. La Corte ha ritenuto rispettati anche gli altri criteri di ricevibilità, che erano invece stati contestati dal governo italiano (tra cui, la presentazione dei ricorsi entro il termine dei sei mesi e lo status di vittime dei ricorrenti) ed è dunque passata all’esame nel merito delle doglianze, partendo dall’art. 8 CEDU.

La Camera ha stabilito che l’art. 8 non soltanto impone agli Stati membri un obbligo negativo, e, dunque, di non interferenza nella vita privata e familiare degli individui, ma può, in alcuni casi, imporre anche un obbligo di tipo positivo sugli Stati membri della Convenzione, in quanto può richiedere che lo Stato adotti gli strumenti necessari per assicurare la dovuta protezione della vita privata e familiare degli individui sottoposti alla sua giurisdizione. Tale azione, qualora non vi sia una prassi consolidata tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, è lasciata alla discrezionalità degli Stati, che godono della possibilità di ricorrere ad un certo margine di apprezzamento nell’applicazione delle disposizioni della Convenzione in generale e, nel caso di specie, dell’art. 8 (come sottolineato dalla Corte nel par. 162): tale margine di apprezzamento è concesso allo Stato, soprattutto per permettere il bilanciamento delle esigenze degli individui con quelle della collettività.

Per valutare dunque se l’Italia avesse violato o meno l’art. 8 della Convenzione, la Corte ha dovuto giudicare se la situazione dello Stato italiano rientrasse o meno nel margine di apprezzamento poc’anzi enunciato. L’esame della Corte si è concluso con esito negativo: essa ha riscontrato, infatti, che nonostante i pluriennali dibattiti parlamentari e le numerose proposte legislative, manca un quadro normativo adeguato che consenta il riconoscimento di diritti e doveri analoghi a quelli delle coppie sposate. L’inazione dello Stato italiano che, nonostante i ripetuti solleciti da parte della Corte costituzionale, ad oggi ancora non tutela le unioni di coppie stabili non sposate, è stata giudicata come una violazione degli obblighi derivanti dalla Convenzione e, in particolare, come un “abuso” del margine di apprezzamento di cui gli Stati godono. La Corte ha infatti stabilito che «[…] the Italian Government have overstepped their margin of appreciation and failed to fulfill their positive obligation to ensure that the applicants have available a specific legal framework providing for the recognition and protection of their same-sex unions» (par. 185).

I ricorrenti avevano inoltre richiesto che la Corte accertasse la violazione dell’art. 14 (che sancisce il divieto di discriminazione – di qualunque tipo – nella tutela dei diritti riconosciuti dalla Convenzione) in combinato disposto con l’art. 8: la Corte ha stabilito che, alla luce di quanto riscontrato in merito alla violazione dell’art. 8, non era necessario procedere all’esame dell’art. 14 (v. par. 188). Una delle coppie di ricorrenti aveva inoltre sottoposto alla Corte la doglianza relativa all’art. 12 della Convenzione, che riconosce agli individui sottoposti alla giurisdizione degli Stati parti il diritto di contrarre matrimonio. Nella sentenza, la Camera ha stabilito che benché l’art. 12 tuteli il diritto al matrimonio, esso non impone agli Stati di autorizzare nel proprio ordinamento il matrimonio di coppie dello stesso sesso: di conseguenza, le istanze relative all’art. 12 (nonché all’art. 14 in combinato disposto con l’art. 12) sono state giudicate manifestamente infondate.

Le parti in causa hanno tre mesi di tempo, dalla data della sentenza, per richiedere un rinvio del caso alla Grande Camera, secondo quanto previsto dall’art. 43 CEDU. Qualora le parti decidessero di non chiedere siffatto rinvio, il giudizio della Camera diverrà definitivo e non più sindacabile. Se, invece, una delle parti deciderà di fare uso di questa possibilità, il caso verrà sottoposto all’esame di un panel di tre giudici: a quest’ultimo spetterà decidere se è opportuno o meno un nuovo esame da parte della Grande Camera. In caso affermativo, il ricorso passerà alla Grande Camera, in caso negativo il giudizio diventerà definitivo e insindacabile.

Pur essendo ancora incerto il proseguimento dell’iter giudiziario del caso in oggetto, la pronuncia della Corte riporta alla luce un problema a lungo dibattuto, a cui lo Stato italiano non è ancora riuscito a dare opportuna soluzione. La regolamentazione puntuale delle unioni civili, omosessuali ed eterosessuali, infatti, costituisce un importante passo normativo e sociale per uno Stato di diritto che auspichi una piena tutela della vita privata e familiare di ogni singolo individuo.