
Lo scorso 8 settembre il cancelliere della Corte penale internazionale, l’olandese Herman von Hebel, ha reso noto l’avvenuto deposito di una nuova dichiarazione di accettazione della competenza della Corte (ex art. 12, par. 3, dello Statuto di Roma) da parte del governo dell’Ucraina.
Come noto, queste dichiarazioni hanno lo scopo di sottoporre alla giurisdizione del Tribunale de L’Aia i crimini commessi, in un momento successivo all’entrata in vigore dello Statuto di Roma (1° luglio 2002), sul territorio di uno Stato che non ne sia parte ma che intenda obbligarsi a cooperare con la Corte perché gli autori siano puniti. Ed è proprio la particolarità del contesto in cui l’iniziativa del governo di Kiev si inserisce a rendere opportune alcune precisazioni in merito al contenuto e agli effetti dell’atto in parola, anche allo scopo di chiarirne, ove possibile, l’obiettivo.
Innanzitutto, occorre ricordare come nelle settimane successive alla fuga dell’ex presidente Viktor Yanukovich, la Verkhovna Rada (nome con cui viene indicato il Parlamento ucraino) avesse adottato una prima dichiarazione ex art. 12(3), inoltrata alla Cancelleria della CPI il 17 aprile 2014, con la quale accettava la giurisdizione della Corte in relazione ai fatti avvenuti sul suo territorio tra il 21 novembre 2013 e il 22 febbraio 2014 (ossia dallo scoppio della rivolta contro il governo di Yanukovich, la c.d. Euromaidan, all’ultimo, disperato tentativo di contenerla attraverso l’uso della forza). Al di là di un comunicato “di rito” a firma del procuratore Bensouda, tuttavia, questa iniziativa non ha ancora prodotto alcun risultato apprezzabile.
Nella dichiarazione dell’8 settembre scorso, il ministro degli esteri ucraino Klimkin ha rappresentato alla Corte la volontà del proprio governo di estenderne la competenza alle condotte poste in essere sul territorio ucraino a partire dal 20 febbraio 2014 (e per una durata indefinita), conformemente a quanto deciso dal Parlamento attraverso la dichiarazione del 4 febbraio 2015 (“On the recognition of the jurisdiction of the International Criminal Court by Ukraine over crimes against humanity and war crimes committed by senior officials of the Russian Federation and leaders of terrorist organizations ‘DNR’ and ‘LNR’, which led to estreme grave consequences and mass murder of Ukrainian nationals”).
Ciò premesso, si rendono necessarie un paio di precisazioni in merito agli effetti di tali dichiarazioni ai sensi dello Statuto di Roma, così come interpretato dagli organi della Corte in questi anni.
In primo luogo, va infatti ricordato come, ai sensi del par. 2 della Regola 44 del Regolamento di procedura e prova della Corte, quando le autorità di uno Stato depositino o esprimano l’intenzione di depositare una dichiarazione ex art. 12, par. 3, il Cancelliere è tenuto ad informarle in merito al fatto che la dichiarazione varrà ad attivare la competenza della CPI su tutti i crimini di cui all’art. 5 che siano rilevanti nella situazione, con l’effetto di rendere inefficace una eventuale limitazione ratione materiae (in tal senso, cfr. il par. 13 della decisione del 3 ottobre 2011 della Pre-Trial Chamber III sulla situazione della Costa d’Avorio). Dal combinato disposto dell’art. 12 dello Statuto e della Regola 44 del Regolamento di procedura e prova è stato inoltre dedotto un ulteriore limite alla libertà dello Stato non parte di circoscrivere la giurisdizione della Corte, ossia il divieto di “manipolare” la Corte attraverso la selezione dei fatti o delle persone da sottoporre a scrutinio (sul punto si vedano anche H.-P. Kaul, Preconditions to the Exercise of Jurisdiction, in A. Cassese, P. Gaeta, J. R. W. D. Jones (eds), The Rome Statute of the International Criminal Court, I, 2002, p. 610 ss.; e M. C. Bassiouni, Negotiating the Treaty of Rome on the Establishment of an International Criminal Court, in Cornell International Law Journal, 1999, pp. 453-454). Sebbene non trovi il proprio fondamento in una dichiarazione ex art. 12, sembra utile ricordare a questo proposito come nel dicembre 2003, a seguito della notifica di un referral da parte delle autorità ugandesi, il procuratore Moreno Ocampo avesse ammonito che nonostante l’atto statale facesse riferimento alla situazione concernente l’esercito dell’LRA, il suo ufficio si sarebbe occupato in maniera indipendente e imparziale di tutti i crimini che fossero stati commessi nel nord dell’Uganda.
Ciò premesso, sembra potersi ipotizzare, quanto agli effetti della dichiarazione del governo ucraino, che il procuratore Bensouda si occuperà di tutti gli incidenti avvenuti sul suolo ucraino a partire dal febbraio 2014, senza dare alcun rilievo all’indicazione dei c.d. gruppi terroristi denominati “Donetsk People’s Republic” (DNR) e “Luhansk People’s Republic” (LNR); dunque, verosimilmente, il Procuratore si occuperà anche dell’abbattimento dell’aereo della Malaysia Airlines MH17 avvenuto il 17 luglio 2014 nei pressi del confine tra la Russia e l’Ucraina (come confermato dallo stesso ufficio del Procuratore).
Proprio tale ultimo rilievo fornisce lo spunto per svolgere alcune delicate considerazioni in merito alle ragioni della dichiarazione ucraina e ai possibili esiti dell’esame preliminare della situazione.
Anche all’osservatore meno attento non potrà in effetti sfuggire come il governo di Kiev abbia adottato tale iniziativa a poco più di un mese dalla mancata adozione, a causa dell’esercizio del potere di veto da parte della Russia, di una risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU avente come oggetto l’istituzione di un tribunale speciale internazionale competente a giudicare i responsabili dei crimini connessi con l’abbattimento dell’MH17 (sulla base di una proposta avanzata dai Paesi Bassi a fine giugno). Tenuto conto delle difficoltà legate ad una simile indagine – dovendo il Procuratore dimostrare che l’abbattimento non sia stato dovuto ad un errore di valutazione degli autori dell’attacco (come già ricordato da diversi osservatori) –, l’ipotesi che le autorità ucraine abbiano inteso conferire competenza sull’incidente alla CPI sembra potersi ragionevolmente configurare soltanto nel caso in cui l’Ucraina abbia a disposizione delle prove schiaccianti, sufficienti a “inchiodare” alle proprie responsabilità gli appartenenti ad uno dei gruppi filo-russi indicati nella dichiarazione.
Più verosimile appare una seconda ricostruzione, secondo cui la dichiarazione potrebbe essere ricondotta alla volontà del governo ucraino di completare il percorso di adesione all’Unione europea. Il Titolo II dell’Accordo di associazione, rubricato “Political dialogue and reform, political association, cooperation and convergence in the field of foreign and security policy”, sottoscritto il 21 marzo 2014 e non ancora in vigore, prevede infatti che l’Ucraina si impegni a ratificare lo Statuto di Roma e gli strumenti ad esso collegati e ad adeguare l’ordinamento statale alle relative norme (cfr. la “Guide to the Association Agreement”, p. 3). Tale obbligo non risulta ad oggi essere stato eseguito non tanto per ragioni di carattere politico, quanto per la mancata modifica dell’art. 124 della Costituzione, in base al quale le funzioni giudiziarie non possono essere delegate ad organi diversi dai tribunali statali (cfr. sul punto l’opinione della Corte costituzionale ucraina dell’11 luglio 2001). Se è vero che tale modifica è stata più volte annunciata (da ultimo, nel corso di una visita del Presidente dell’Assemblea degli Stati parti dello Statuto di Roma in Ucraina, nell’ottobre 2014), l’accettazione della competenza della CPI tramite dichiarazione si potrebbe forse ricondurre alla volontà di eseguire (sebbene in maniera “sfumata”) quell’obbligo, stante l’incapacità, finora, di addivenire all’approvazione della legge costituzionale. Tale conclusione appare però incompatibile con il contenuto della dichiarazione resa ex art. 12, in cui come più volte sottolineato non si riconosce la giurisdizione del tribunale de L’Aia su tutti i crimini commessi nel territorio del paese, ma soltanto sulle condotte di due organizzazioni qualificate come “terroristiche”.
La delimitazione ratione personae della giurisdizione della CPI potrebbe forse consentire di ricondurre la ratio della notifica di una simile dichiarazione ad un tentativo di salvaguardare l’applicazione dell’Accordo c.d. Minsk II – e dunque la negoziazione di un complessivo piano di pace con la Russia che passi attraverso la concessione di una certa autonomia alle regioni orientali dell’Ucraina – attraverso il ricorso ad un organismo internazionale, capace di intervenire nel caso di violazioni del cessate il fuoco che si traducano nella commissione di crimini internazionali. Come le altre ipotesi, anche questo scenario risulta tuttavia inadeguato a rispondere alla complessità della situazione, laddove finirebbe per imputare soltanto ai ribelli filo-russi la responsabilità di possibili, future violazioni degli accordi, il cui contenuto potrebbe al contrario scontentare un ampio settore della società ucraina.
La complessità del quadro sin qui delineato e la delicatezza delle questioni che la dichiarazione dell’Ucraina solleva, tanto dal punto di vista giuridico quanto da quello politico, rendono estremamente delicata la posizione dell’Ufficio del Procuratore. Il modo in cui Fatou Bensouda e il suo team sceglieranno di delimitare la “situazione” e i criteri in base ai quali effettueranno la selezione degli incidenti da sottoporre all’esame preliminare della Corte non soltanto influenzeranno la conclusione dell’esame, ma avranno delle significative ripercussioni sul piano delle relazioni internazionali e, in particolare, sul rapporto tra la Corte e la Russia, Stato ad oggi non parte dello Statuto di Roma (che la Russia ha firmato il 13 settembre 2000, ma mai ratificato), che negli ultimi anni ha più volte impedito l’adozione di risoluzioni contenenti il referral della situazione siriana alla CPI.