
Che l’Europa sia ancora lontana, di fronte ad eventi di portata epocale quali le ondate migratorie verso le sue coste meridionali e sud-orientali, da quel ruolo primario che la sua posizione geografica, la sua dimensione economica e le sue ambizioni strategiche le attribuiscono, è ancora tristemente chiaro. Tuttavia, non deve essere dimenticato come la costruzione europea abbia carattere unico nella storia delle relazioni internazionali, ed in questo senso la maggiore risorsa del suo spirito comune sia stata quella di rialzarsi, evolversi e migliorarsi a seguito ed in conseguenza dei propri fallimenti: si pensi alla Conferenza di Messina, in cui l’allora ministro degli esteri Martino stimolò il rilancio del processo integrazionista che portò nel 1957 alla firma dei Trattati di Roma, solo cinque anni dopo il “gran rifiuto” dell’Assemblea nazionale francese al progetto di Comunità europea di difesa. Oppure al vertice anglo-britannico di Saint Malo del 1998, in cui Tony Blair e Jacques Chirac, leader delle due potenze militari europee, si incontrarono per discutere l’opportunità di dotare l’Europa di una autonoma capacità militare, che le permettesse di svolgere azioni di gestione delle crisi, a fronte dell’incapacità dell’allora Comunità europea di impedire spargimenti di sangue “nel proprio giardino di casa”, ossia nella penisola balcanica. Ci si potrebbe chiedere se possa essere il caso di scomodare questi illustri riferimenti storici, di fronte al raggiungimento di due accordi (uno dei quali, per di più, deciso dalla maggioranza e non dalla unanimità degli Stati membri) raggiunto dal Consiglio in questo settembre 2015, quali quelli sul ricollocamento rispettivamente di 40.000 e 120.000 migranti bisognosi di protezione internazionale. Tanto più se ne consideriamo la dimensione oggettivamente modesta rispetto alle dimensioni presenti e future del problema migratorio – sulla base dei dati forniti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), sono circa 500.000 le persone che nel 2015 hanno attraversato il Mediterraneo dirette verso l’Europa. La ragione è che, a parere di chi scrive, qualcosa a Bruxelles potrebbe cominciare a muoversi.
Ma andiamo per ordine. Ad integrazione dell’Agenda Europea sulla migrazione presentata in data 17 maggio 2015, la Commissione europea ha presentato, lo scorso 9 settembre, un pacchetto di misure particolarmente ambiziose. Tra queste, spiccano la proposta volta ad istituire un meccanismo di ricollocazione strutturato e permanente, attivabile dalla Commissione in qualsiasi momento, al fine di aiutare gli Stati membri dell’UE il cui regime di asilo sia posto sotto pressione da un afflusso massiccio e sproporzionato di cittadini di paesi terzi (tali situazioni di emergenza dovrebbero essere in futuro definite dalla Commissione in base al numero delle domande di asilo ed al numero degli attraversamenti irregolari delle frontiere negli ultimi sei mesi); nonché una proposta volta al ricollocamento in altri Stati membri dell’UE di 120.000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale presenti sui territori di Italia, Grecia ed Ungheria (in aggiunta alle 40.000 persone che la Commissione in maggio aveva intenzione di ricollocare dalla Grecia e dall’Italia, su cui il Consiglio ha deciso in data 14 settembre). Questa seconda proposta trova la propria base giuridica nell’art. 78, par. 3, TFUE, che prevede una speciale procedura per cui “[q]ualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati. Esso delibera previa consultazione del Parlamento europeo”. Proprio il Parlamento, lo scorso 16 settembre, ha espresso il proprio parere favorevole alla proposta, con 370 voti in favore, 134 contrari e 52 astenuti.
Come già descritto su questo Blog (v. post di Silvio Majorino) il Consiglio dei Ministri degli affari interni riunitosi in data 14 settembre aveva espresso soltanto un generico assenso sulla proposta di ricollocamento dei 120.000; mentre non aveva neppure menzionato la proposta di istituzione di un meccanismo europeo permanente di emergenza per la ripartizione dei richiedenti asilo. L’unico esito era stato, invece, la formale adozione della decisione per il ricollocamento di un totale di 40.000 persone già presenti sul territorio di Italia e Grecia ed in chiaro bisogno di protezione internazionale, sulla quale, peraltro, il Consiglio aveva già raggiunto un orientamento generale, espresso nella Risoluzione approvata nella riunione del 20 luglio, che però si limitava a 32.256 persone, impegnandosi ad effettuare un aggiornamento di tale numero entro dicembre 2015 (sia consentito rimandare sul punto al nostro post, su questo Blog). Un esito che, per la stampa e per gli addetti ai lavori, aveva fatto pensare all’ennesimo caso di incapacità delle istituzioni europee di assumere decisioni incisive e ad un’Unione non in grado di mostrarsi, adesso come nei mesi a venire, unita, solidale e responsabile nel far fronte alla crisi. Insomma, fino a questo punto, l’unico elemento innovativo poteva essere considerato l’attivismo del presidente Juncker, le cui manovre dimostravano (e dimostrano) la volontà di sfruttare al massimo il potere di iniziativa attribuito alla Commissione europea dai Trattati.
In questo clima generale ormai privo di grandi aspettative, gli esiti del Consiglio affari interni dello scorso 22 settembre potrebbero rappresentare un primo segnale di risveglio della coscienza comune europea. Infatti, nonostante la permanenza di alcuni dubbi, che si considereranno più avanti, da parte di alcuni Stati membri, il dato incontrovertibile è costituito dall’adozione di un atto di natura vincolante di notevole impatto, non solo a livello simbolico: la decisione del Consiglio 12098/15, adottata a maggioranza, “establishing provisional measures in the area of international protection for the benefit of Italy and Greece”. Con essa, il Consiglio ha approvato, seppur con alcune modifiche, la proposta di ricollocamento di altri 120.000 migranti bisognosi di protezione internazionale lanciata dalla Commissione in data 9 settembre. Nel dettaglio, 66.000 persone saranno complessivamente ricollocate dall’Italia (15.600 unità) e dalla Grecia (50.400), secondo le quote definite negli allegati I e II alla decisione. Le restanti 54.000 persone, sulla base della proposta della Commissione del 9 settembre, avrebbero dovuto essere ricollocate dall’Ungheria. Tuttavia, dal momento che il governo di Budapest ha rifiutato l’aiuto europeo nella gestione dei flussi migratori verso il paese come definito nel progetto di decisione originario, anche i 54.000 in oggetto saranno ricollocati da Italia e Grecia, sulla base della stessa proporzione dei 66.000 di cui sopra, dopo un anno dall’entrata in vigore della decisione. Gli Stati membri che, in applicazione della decisione, ricollocheranno richiedenti asilo in evidente bisogno di protezione internazionale dall’Italia e dalla Grecia riceveranno una somma forfettaria di 6.000 euro per persona ricollocata (identica alla somma forfettaria di cui all’art. 18 del regolamento UE n. 516/2014, che istituisce il Fondo asilo, migrazione e integrazione); Italia e Grecia riceveranno una somma di almeno 500 euro per ciascun ricollocato dal loro territorio, in considerazione dei costi effettivi necessari per il trasferimento del richiedente asilo. Il lasso di tempo di applicazione della decisione è di 2 anni: nel corso del primo anno, un paese potrà, invocando circostanze eccezionali, accogliere fino al 30% in meno dei rifugiati che gli sono stati assegnati, ma nell’anno successivo dovrà comunque accogliere l’intero contingente assegnatogli.
Nonostante il raggiungimento di questo risultato positivo e per certi versi inatteso, e i numeri dell’ accordo, permangono, come anticipato, alcuni dubbi sul pieno rispetto della decisione. In primo luogo, come si è detto, la decisione è stata approvata a maggioranza: Ungheria, Romania, Slovacchia e Repubblica ceca hanno espresso voto contrario, mentre la Finlandia si è astenuta. L’adozione a maggioranza è conforme a quanto prescritto dell’art. 78, par. 3, TFUE, che richiede per questo tipo di decisioni la maggioranza qualificata. Il ministro degli interni lussemburghese, Jean Asselborn, ha subito sottolineato il dato positivo, evidenziando come l’accordo sia stato raggiunto in sede di Consiglio “a larghissima maggioranza, una maggioranza che va al di là di quella prevista dai Trattati”. Inoltre, l’atto così adottato risulta comunque vincolante per tutti gli Stati membri che hanno partecipato alla decisione, anche quelli che hanno votato contro. Rimangono comunque esclusi dall’applicazione il Regno Unito e la Danimarca, in virtù, rispettivamente, dei Protocolli nn. 21 e 22 ai Trattati, per cui esse non partecipano all’adozione degli atti relativi alla parte terza, titolo V del TFUE, né sono da essi vincolati. L’Irlanda, invece, a norma dell’art. 3 del Protocollo n. 21, ha espresso la propria volontà di partecipare al ricollocamento.
Quello che emerge è piuttosto, un problema di natura politica. Da un lato, è certamente comprensibile che una decisione del genere, alquanto “invasiva” della sovranità degli Stati, presa a maggioranza, possa risultare invisa agli Stati membri che si sono espressi contrariamente, ed in particolare a quel gruppo di Stati dell’Est che si è dichiarato contrario alle quote vincolanti fin dalla primavera scorsa. Una decisione presa a maggioranza vincola, di regola, anche la minoranza dissenziente rispetto al merito della decisione approvata. Nel caso in esame, invece, pare proprio che i governi dei paesi contrari non abbiano nessuna intenzione di collaborare per dar seguito alla decisione, mostrandosi decisi piuttosto a fare il possibile per impedirne l’attuazione e minare l’efficacia del meccanismo di solidarietà in essa contenuto. Un’intenzione che emerge dalla durezza delle reazioni di questi paesi: il ministro degli interni ceco Milan Chovanec, ad esempio, ha dichiarato alla stampa che quanto approvato in Consiglio sarebbero solo “gesti politici vuoti ed inefficaci”; mentre il premier della Slovacchia Fico ha promesso che fino a quando sarà primo ministro “le quote obbligatorie non saranno applicate sul territorio slovacco”.
“Capofila” del fronte degli oppositori è, com’è noto l’Ungheria di Viktor Orban. Il dissenso ungherese non si è limitato al voto negativo in Consiglio, al rifiuto dell’aiuto europeo (che avrebbe permesso di ricollocare 54.000 richiedenti asilo dal territorio ungherese in quello di altri Stati membri) ed alla continua opposizione al sistema di ripartizione; il governo ungherese è andato oltre, contestando l’intero ambito della politica migratoria europea ed assumendo comportamenti in evidente contrasto con i valori fondativi della costruzione europea, portando a termine la costruzione di un muro al confine con la Serbia per impedire l’accesso di migranti irregolari sul proprio territorio, e, così, “scaricando” sul paese vicino (candidato all’adesione) gran parte degli oneri legati all’accoglienza ed alla gestione dei flussi di profughi. Il governo Orban ha inoltre proposto e fatto approvare in Parlamento misure che inaspriscono il reato d’immigrazione clandestina, prevedendo tre anni di carcere per chiunque entri illegalmente in Ungheria, eliminando i centri di accoglienza dei richiedenti asilo e procedendo all’esame di tutte le richieste in una “zona di transito” tra il confine serbo ed il muro.
Un accenno, seppur lieve, della consapevolezza che una “questione ungherese” sussista può essere rinvenuto proprio all’interno della Dichiarazione del Consiglio europeo straordinario dello scorso 23 settembre. Il vertice, che ha rappresentato un’ulteriore tappa nel percorso di risposta alla crisi, ha visto i Capi di Stato e di governo dei 28 raggiungere l’accordo su una serie di questioni “di contorno”, la cui rilevanza va comunque riconosciuta. In particolare, si rende nota la volontà di agire rapidamente per dare attuazione ad alcune delle azioni proposte dalla Commissione nell’ambito del secondo pacchetto di attuazione dell’Agenda europea sulla migrazione, tra cui il sostegno agli Stati in prima linea da parte delle istituzioni e delle agenzie europee perché venga garantito il funzionamento dei “Punti di crisi” (c.d. hotspot), in cui provvedere all’identificazione, registrazione e rilevamento delle impronte digitali dei migranti, assicurando nel contempo la ricollocazione dei richiedenti asilo e i rimpatri dei migranti “economici”, al più tardi entro novembre 2015. È stato altresì previsto il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne, anche attraverso risorse aggiuntive per le agenzie Frontex, EASO ed Europol, e il rafforzamento del finanziamento del Fondo di emergenza asilo, migrazione e integrazione e del Fondo sicurezza interna – Frontiere. Inoltre, una serie di orientamenti sono stati adottati in materia di cooperazione con attori esterni e Stati terzi all’Unione: tra questi, lo stanziamento di un miliardo di euro per far fronte alle urgenti esigenze dei rifugiati, aiutando l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR); l’assistenza a Stati terzi tra cui il Libano, la Giordania, la Turchia impegnati ad affrontare la crisi dei rifugiati siriani, anche aumentando sostanzialmente il Fondo fiduciario regionale dell’UE in risposta alla crisi siriana (c.d. “Fondo Madad”); l’assistenza ai paesi dei Balcani occidentali nella gestione dei flussi di rifugiati anche attraverso gli strumenti di preadesione; nonché l’aumento del finanziamento del Fondo fiduciario di emergenza per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa, attraverso ulteriori contributi degli Stati membri.
La Dichiarazione finale ribadisce, significativamente, l’importanza di “creare le condizioni che consentano a tutti gli Stati membri di partecipare pienamente al sistema di Dublino”, ma anche la necessità che, nel frattempo, tutti debbano “sostenere, applicare e attuare le norme esistenti, compreso il regolamento Dublino e l’acquis di Schengen”. Collocandosi sulla stessa linea, il commissario per la migrazione e gli affari interni Dimitris Avramopoulos ha dichiarato a margine della riunione che: “In Europa ciascuno è tenuto a difendere le norme stabilite di comune accordo sulle modalità di accoglienza dei richiedenti asilo. Tutti gli Stati membri partecipanti devono trattare le domande di asilo in base ai criteri e alle norme comuni utilizzate dalle autorità nazionali per stabilire chi abbia diritto alla protezione internazionale. Queste norme devono essere pienamente attuate e rispettate, sempre nel rispetto della dignità e dei diritti umani dei richiedenti”.
In definitiva, non può essere negato che gli sviluppi delle ultime settimane lascino spazio ad un maggiore ottimismo circa la capacità dell’Europa unita di trovare, se non soluzioni sistemiche, almeno quelle per far fronte alle ondate migratorie in corso. Tuttavia, sarebbe errato pensare che la risposta europea dipenda soltanto dal contenuto degli atti approvati. L’aspetto valoriale resta sullo sfondo ed in questo senso l’Ungheria – questa Ungheria – rappresenta un “problema nel problema” nel contesto della crisi migratoria. Al fine di riuscire nel compito di gestire l’enorme afflusso di persone bisognose di protezione internazionale alle porte dell’Unione, l’unità degli Stati membri, tutti, intorno ai propri valori fondanti – su tutti, la solidarietà tra i membri ed il rispetto della dignità umana – rappresenta un prerequisito fondamentale. In questo senso, è necessario che le istituzioni di Bruxelles e gli Stati membri lancino un segnale chiaro (e, verosimilmente, più forte di quello dello scorso 23 settembre) circa la non ammissibilità di comportamenti simili a quelli posti in essere dal governo di Budapest, che altrimenti rischierebbero di divenire un pericoloso precedente, suscettibile di imitazione da parte altri paesi contrari alle decisioni assunte in Consiglio, rompendo una unità ad oggi più che mai necessaria.
Non va dimenticato che i Trattati prevedono diversi strumenti sanzionatori nei confronti dei paesi che non si conformino alle regole o non rispettino i valori fondamentali dell’Unione (solo per citarne alcuni, si pensi alla procedura di infrazione disciplinata dagli artt. 258-261 TFUE; nonché alla procedura relativa a violazioni dei valori di cui all’art. 2 TUE, prevista dall’art. 7 TUE); i prossimi mesi ci diranno come e in che misura l’Europa riuscirà a mostrarsi unita, e quindi credibile, di fronte a mutamenti di portata epocale. Come si è detto, le misure fino ad oggi adottate possono rappresentare l’inizio di una risposta efficace e comune, a patto che istituzioni e Stati membri riescano a garantirne una unitaria implementazione.