Il Tribunale dell’UE annulla tre bandi di concorso a cura dell’EPSO e riafferma in tal modo il divieto di ogni discriminazione fondata sulla lingua


Con la sentenza del 24 settembre 2015, nelle cause riunite T-124/13, Italia c. Commissione, e T-191/13, Spagna c. Commissione, il Tribunale dell’Unione europea (d’ora in avanti Tribunale) ha annullato tre bandi di concorso a cura dell’Ufficio europeo di selezione del personale (EPSO), dichiarando l’illegittimità, da un lato, della parte di questi ultimi in cui veniva posto in capo ai candidati l’obbligo di scegliere nelle loro comunicazioni con l’EPSO tra le sole lingue francese, inglese e tedesco, e, dall’altro lato, della parte che limitava la scelta della “seconda lingua” ai fini della selezione e dello svolgimento delle prove, esclusivamente ad una delle tre appena menzionate. Nella pronuncia in questione, il Tribunale ha fatto più volte specifico richiamo ad una sentenza sulla medesima materia emessa dalla Corte di giustizia il 27 novembre 2012, nella causa C-566/10 P, Italia c. Commissione (si consideri che tale pronuncia riformava la precedente sentenza del Tribunale del 13 settembre 2010, nelle cause T-166/07 e T-285/07), rendendosi di nuovo garante della “natura multilingue” del diritto dell’UE e, conseguentemente, dell’innalzamento degli standards di tutela dei diritti dei cittadini europei. Contro tale decisione, entro due mesi a decorrere dalla data della sua notifica, potrà essere proposta una impugnazione, limitata alle sole questioni di diritto, dinanzi alla Corte di giustizia.

Prima di esaminare le motivazioni addotte dal Tribunale e svolgere alcune considerazioni circa il valore della sentenza nell’ottica di un’accresciuta tutela dell’istituto della cittadinanza europea (e non solo), è innanzitutto opportuno ripercorrere brevemente la vicenda. Quest’ultima trae origine dalla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea (GUUE), nei mesi di dicembre 2012 e gennaio 2013, di tre bandi di concorso generale per la costituzione di elenchi di riserva a scopo di assunzioni a cura dell’EPSO, organismo istituito nel luglio del 2002 con decisione 2002/620/CE del Parlamento europeo, del Consiglio, della Commissione, della Corte di giustizia, della Corte dei conti, del Comitato economico e sociale, del Comitato delle regioni e del Mediatore, allo scopo specifico di occuparsi dell’organizzazione delle procedure di assunzione degli agenti e dei funzionari dell’UE. Tali bandi esigevano che i candidati avessero una conoscenza approfondita di una prima lingua nell’ambito delle lingue ufficiali dell’Unione europea (che all’epoca dei fatti erano 23), nonché una conoscenza soddisfacente di una seconda lingua “a scelta” tra le seguenti tre: francese, inglese e tedesco. La seconda lingua doveva essere utilizzata per la corrispondenza tra l’EPSO e i candidati, nonché ai fini della procedura di selezione e dello svolgimento delle prove di concorso. In base a quanto stabilito nei bandi, tale restrizione era in particolare giustificata dall’interesse del servizio: interesse a far sì che i candidati neoassunti potessero essere immediatamente operativi e capaci di comunicare in maniera efficace nel loro lavoro quotidiano, evitando di mettere, in caso contrario, a serio rischio il funzionamento effettivo delle istituzioni. A seguito della pubblicazione dei suddetti bandi, il Tribunale si trovava investito delle doglianze di due Stati membri – l’Italia e la Spagna – che ne chiedevano l’annullamento in ragione delle restrizioni sopramenzionate.

Per quanto concerne la prima limitazione lamentata dai due Stati – ossia quella relativa alle lingue utilizzabili nelle comunicazioni e negli scambi epistolari tra i candidati e l’EPSO – viene in rilievo il principio generale di piena parità delle lingue ufficiali di tutti gli Stati membri, con specifico riferimento all’uso delle lingue nelle (e da parte delle) istituzioni dell’Unione. Il principio della parità linguistica nei rapporti con le istituzioni, nel silenzio iniziale dei Trattati, che si limitano a rinviare per una sua definizione ad uno specifico atto del Consiglio, è stato di conseguenza statuito da un apposito regolamento (regolamento n. 1/1958 del Consiglio, del 15 aprile 1958, che stabilisce il regime linguistico della Comunità economica europea, e ora dell’Unione). Il regolamento in questione, con cui il Consiglio ha esercitato la competenza riconosciutagli dall’allora art. 217 TCEE (l’attuale art. 342 TFUE), è stato di volta in volta aggiornato per tenere conto delle nuove adesioni, e, nella sua versione attuale, esso riconosce quali lingue ufficiali e di lavoro delle istituzioni tutte le 24 lingue ufficiali (art. 1). Tale atto normativo, oltre ad esplicitare l’obbligo di redigere “i regolamenti e gli altri testi di portata generale”, così come di pubblicare la Gazzetta ufficiale, in tutte le lingue ufficiali, stabilisce altresì la necessità che le comunicazioni inviate da uno Stato membro o una persona “soggetta alla giurisdizione di uno Stato membro” alle istituzioni, così come le risposte di queste ultime, siano redatte nella lingua ufficiale scelta dalla persona in questione (art. 2). Al tempo stesso, il regolamento prevede che i testi inviati da una istituzione ad uno Stato o ad una persona debbano essere redatti nella lingua di quello Stato o dello “Stato alla cui giurisdizione è soggetta la persona” (art. 3). Sotto tale profilo, si osservi che la prima delle due disposizioni appena menzionate – relativa agli scambi epistolari tra una persona e le istituzioni (art. 2 del regolamento n. 1/1958) – ha assunto all’oggi rango di norma primaria, divenendo, per mezzo degli artt. 20 e 24 TFUE, uno degli elementi costitutivi dello status di cittadino dell’Unione.

Alla luce di quanto appena detto, l’Italia e la Spagna sostenevano che una simile limitazione avrebbe costituito una “discriminazione in danno degli Stati membri diversi da quelli aventi il francese, l’inglese o il tedesco come lingua ufficiale”; e lo Stato spagnolo metteva altresì in luce il fatto che tale restrizione fosse idonea a conferire, di fatto, un vantaggio competitivo a tutti quei candidati che avessero scelto come prima lingua uno dei tre idiomi suddetti. A tal riguardo, è importante rilevare che entrambi gli Stati contestavano la tesi secondo cui la partecipazione ad un concorso riguarderebbe una situazione interna all’organizzazione istituzionale. In tal caso, infatti, l’art. 6 del regolamento n. 1/1958 appena menzionato prevede che le istituzioni, nel quadro dei propri regolamenti interni, possano autonomamente determinare le rispettive modalità di applicazione del regime linguistico generale.

Richiamando la summenzionata sentenza della Corte di giustizia del 27 novembre 2012, il Tribunale ha rilevato che nessuna delle istituzioni interessate dai bandi, pur avendo ciascuna la facoltà di determinare nel proprio regolamento interno le modalità di applicazione del regime linguistico, aveva proceduto in tal senso – non potendo peraltro il bando di concorso essere classificato in qualità di regolamento interno – e ha concluso che tanto le istituzioni e i propri funzionari ed agenti, tanto i candidati a un concorso esterni, rientrano nell’ambito di applicazione del regolamento n. 1/1958. L’organo giurisdizionale, dopo aver ricordato che, a differenza di altri organismi come l’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (UAMI), le istituzioni interessate dai bandi impugnati non sono assoggettate ad uno specifico regime linguistico, ha poi proseguito a qualificare la natura dell’atto di candidatura. Nel far ciò, il giudice europeo è giunto alla conclusione che si tratta, “senza alcun dubbio”, di un “testo diretto alle istituzioni che hanno creato l’EPSO da parte di una persona” – il candidato appunto – appartenente alla giurisdizione di uno Stato membro (punto 61); e che, al contempo, le comunicazioni inviate dall’EPSO a ciascun candidato costituiscono a tutti gli effetti delle “risposte” (punto 62). Di conseguenza, sulla base dell’art. 2 del regolamento n. 1/1958 – a norma del quale le comunicazioni inviate da uno Stato membro o una persona “soggetta alla giurisdizione dello Stato membro” alle istituzioni, così come le risposte di queste ultime, devono essere scritte nella lingua ufficiale scelta dallo Stato o dalla persona in questione – l’organo è arrivato ad accogliere il motivo di ricorso dei due Stati membri e ad annullare i bandi impugnati, nella parte in cui questi ultimi limitano le comunicazioni con l’EPSO alle sole tre lingue francese, inglese e tedesco (punto 73). In questo caso, ha precisato inoltre il Tribunale, non si pone neanche il bisogno di esaminare se i tre bandi comportino o meno una discriminazione fondata sulla lingua.

Per quanto riguarda invece la seconda parte dei bandi impugnati ritenuta illegittima dall’Italia e dalla Spagna –  la limitazione alle sole lingue francese, inglese e tedesca della scelta della seconda lingua da parte dei candidati ai concorsi – il Tribunale, richiamando ancora una volta la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, ha affermato che una limitazione alle sole tre lingue costituirebbe a tutti gli effetti una “discriminazione fondata sulla lingua”. Un siffatto obbligo recherebbe con tutta evidenza un vantaggio ad alcuni potenziali candidati (quelli che possiedono una conoscenza soddisfacente di almeno una delle lingue menzionate), e arrecherebbe al contrario un danno a coloro i quali, non possedendo tale conoscenza, risulterebbero esclusi dalle prove concorsuali.

A tal proposito, è opportuno ricordare che l’art. 82 dello Statuto unico che regola il rapporto di lavoro del personale di ruolo dell’Unione (l’ultima versione è contenuta nel regolamento n. 723/2004 del Consiglio, del 22 marzo 2004) stabilisce tra i requisiti di base per l’accesso alla funzione pubblica europea la conoscenza approfondita di una lingua ufficiale e “soddisfacente” di un altro idioma, sempre ufficiale, nella misura necessaria alle funzioni che si è chiamati ad esercitare. È lo stesso Statuto, all’art. 1, a stabilire che “è vietata qualsiasi discriminazione fondata, in particolare, sulla lingua” e che, “[n]el rispetto del principio di non discriminazione e del principio di proporzionalità, ogni limitazione di tali principi deve essere oggettivamente e ragionevolmente giustificata e deve rispondere a obiettivi legittimi di interesse generale nel quadro della politica del personale”.

Proprio sul punto della restrizione alle sole tre lingue nella “scelta” della seconda lingua come requisito di partecipazione al concorso, la Corte e il Tribunale si erano già peraltro espressi, ammettendo sì la possibilità per le istituzioni di limitare direttamente o indirettamente la scelta della seconda lingua da parte dei candidati “nell’interesse del servizio” (si veda, in tal senso, la sentenza del Tribunale di primo grado 20 novembre 2008, nella causa T-185/05, Italia c. Commissione), ma precisando, al contempo, che tale facoltà dovesse essere disciplinata da norme adottate ai sensi dell’art. 6 del regolamento n. 1/1958 o ad altro titolo, e che comunque fosse necessario stabilire “criteri chiari, oggettivi e prevedibili, affinché i cittadini possano sapere, con sufficiente anticipo, quali requisiti linguistici debbono essere soddisfatti, e ciò al fine di potersi preparare ai concorsi nelle migliori condizioni” (si veda, in tal senso, la già citata sentenza della Corte di giustizia 27 novembre 2012 nella causa C-566/10 P, Italia c. Commissione, punto 90). In altri termini, evidente era l’intento della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE di circoscrivere entro confini il più possibile precisi il ricorso a regimi linguistici ridotti.

Nella sentenza appena menzionata, la Corte di giustizia aveva ritenuto di accogliere le doglianze dell’Italia. Lo stesso fa ora il Tribunale, nel momento in cui si trova ad esaminare le motivazioni fornite dalla Commissione, giudicando in particolare se esse siano giustificate alla luce dell’interesse del servizio e se rispettino il principio di proporzionalità (punto 101). Procedendo per ordine, il Tribunale mostra di non condividere la prima motivazione fornita dalla Commissione – ossia il fatto che il francese, l’inglese e il tedesco restino le lingue maggiormente utilizzate, in particolare alla luce della prassi consolidata delle istituzioni dell’Unione per quanto riguarda le lingue di comunicazione interna. A giudizio del Tribunale, si tratta infatti di “un’affermazione vaga, non completata da indicazioni concrete” (punto 110). Il Tribunale sostiene inoltre che non sia possibile presumere che un funzionario neoassunto, e che non conosca nessuna delle lingue veicolari o di deliberazione di un’istituzione, non sarebbe per tale ragione capace di fornire immediatamente un lavoro utile nell’istituzione medesima. Un’uguale chiusura viene poi dimostrata di fronte alla serie di statistiche presentate dalla Commissione allo scopo di suffragarne le affermazioni circa il più frequente impiego delle tre lingue in seno alle istituzioni. Degno di nota, a tal riguardo, è il punto in cui il Tribunale qualifica come non giustificata segnatamente l’inclusione del tedesco: “la lingua principale di circa un funzionario su dieci e che viene dichiarata come seconda lingua unicamente dal 5,5% dei funzionari della Commissione”. Su questo sfondo, il giudice prosegue affermando che, insieme all’inclusione della lingua tedesca, “non sembrerebbe allora irragionevole includere l’italiano, lo spagnolo o anche il neerlandese, stante che le percentuali indicate per ciascuna di queste tre lingue non sono molto distanti da quelle indicate per il tedesco” (punto 134). A giudizio del Tribunale, di conseguenza, l’obbligo dei candidati di scegliere il francese, l’inglese o il tedesco come seconda lingua, da un lato, non ha alla base una giustificazione oggettiva, e, dall’altro, non risulta neanche proporzionato all’obiettivo perseguito dalla Commissione: quello di assumere funzionari e agenti immediatamente operativi.

In conclusione, può essere utile svolgere qualche breve considerazione sul significato e il valore della sentenza in oggetto. Tale pronuncia – si diceva all’inizio – testimonia la volontà dell’organo giurisdizionale dell’Unione, oltre che di riaffermare il rispetto del carattere multilingue del diritto dell’UE, di operare altresì in favore di un innalzamento degli standards di tutela dei diritti dei cittadini europei. Sotto tale profilo, può scorgersi il richiamo all’importanza del principio di assimilazione tra i cittadini degli Stati membri: una delle idee principali che ha caratterizzato gli sviluppi del processo di integrazione europea nonché del suo diritto. È questo il quadro in cui il diritto all’uso della propria lingua nei rapporti con le istituzioni, e soprattutto l’obbligo da parte di queste ultime di rispondere nella stessa, sono stati sanciti fin dalle origini del diritto comunitario dal già richiamato regolamento n. 1/58. Tale diritto ha infine trovato una piena e completa affermazione nei Trattati (artt. 20 e 24 TFUE), rivestendo lo scopo precipuo di favorire un senso di prossimità delle istituzioni al cittadino. A tal riguardo, si osservi inoltre che il diritto al rispetto della parità delle lingue ufficiali nei rapporti con le istituzioni rientra altresì tra i diritti di cittadinanza stabiliti della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (art. 41).

La molteplicità delle lingue ufficiali e la parità delle stesse costituiscono un aspetto essenziale e caratterizzante di una Unione che ha fatto del motto “unità nella diversità” uno dei suoi valori fondamentali (si noti che tale motto era stato anche ufficialmente inserito nell’art. I-8, comma 3, del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa). L’importanza della pluralità linguistica nell’ambito dell’Unione può essere analizzata sotto un duplice aspetto: giuridico e politico. Dal punto di vista giuridico, l’uso “paritario” delle lingue incide sulla pienezza dell’accesso al diritto e alle istituzioni dell’UE, condizionando il rapporto con questa dei cittadini degli Stati membri, e funzionando da parametro utile a misurare l’ampiezza effettiva della loro posizione giuridica. Nondimeno, dal punto di vista più prettamente politico, come previsto dagli stessi Trattati, il tema delle lingue investe tanto il rispetto della identità nazionale dei singoli Stati membri (art . 4, par. 2, TUE) – di cui la lingua costituisce un elemento fondante –, tanto la salvaguardia della “identità europea” dell’Unione, che vede proprio nella sua diversità (anche, ma non soltanto) linguistica uno dei suoi valori fondamentali (l’art 3, par. 3, comma 4, TUE, dedicato agli obiettivi dell’Unione, afferma che quest’ultima “rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica”). Il rispetto delle varie identità – nazionali ed europea –, lungi dal trovare spazio esclusivamente nei Trattati, è contenuto altresì all’interno della Carta dei diritti fondamentali, nel cui Preambolo si legge che l’Unione “contribuisce alla salvaguardia e allo sviluppo dei suoi valori comuni nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli di Europa, nonché dell’identità nazionale degli Stati membri”. Tutto ciò è utile a spiegare il motivo per cui il funzionamento dell’Unione sia formalmente organizzato intorno a un principio generale di completa parità di tutte le lingue ufficiali degli Stati membri, a tutela del quale i Trattati hanno posto l’obbligo dell’unanimità in seno al Consiglio quale condizione necessaria per eventuali modifiche.