
La Repubblica turca è stata condannata lo scorso 6 ottobre dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) per aver comminato ingiustamente una sanzione a due giornalisti che avevano intervistato alcuni membri del KADEK e del PJA (gruppi entrambi afferenti al PKK – Partito dei Lavoratori del Kurdistan) violando così l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che tutela la libertà di espressione degli individui sottoposti alla giurisdizione degli Stati membri della medesima. La sentenza, peraltro pronunciata pochi giorni prima dei fatti di Ankara, riaccende le polemiche sulla questione curda e ne sottolinea la scottante attualità, dimostrata anche dalla pericolosa evoluzione degli ultimi mesi.
All’origine della sentenza, un ricorso da parte di Ahmet Sami Belek e Savas Velioglu, cittadini turchi, condannati ad ammende, rispettivamente, di 575€ e 285€, nonché al divieto di pubblicazione del giornale, di cui sono proprietario e redattore, per tre giorni. I fatti che hanno portato alla condanna consistono in un’intervista rilasciata (e pubblicata dai ricorrenti) da alcuni membri del KADEK, al tempo dei fatti (2003) in prigione. In particolare, nel dicembre 2003, la Corte di Sicurezza di Stato turca aveva condannato i due giornalisti, basando il proprio giudizio su quanto previsto da due disposizioni interne: la legge n. 3713, relativa alla lotta contro il terrorismo, che vieta la pubblicazione di dichiarazioni rilasciate da membri appartenenti ad un’organizzazione armata illegale, e la legge n. 5680, relativa invece alla stampa. La sentenza della Corte di sicurezza era stata successivamente confermata dalla Corte di cassazione: peraltro, proprio nel procedimento di fronte a quest’ultima i ricorrenti avevano contestato la violazione degli artt. 6 e 10 della Convenzione. Nel luglio 2004, la Corte d’assise di Istanbul, divenuta competente a seguito della soppressione delle Corti di sicurezza, ha invece revocato il divieto di pubblicazione del giornale, ai sensi di alcune modifiche apportate alla legge n. 5187 sulla stampa.
Per quanto riguarda il procedimento a Strasburgo, la Corte EDU si è prima di tutto espressa sulla ricevibilità del ricorso, prendendo in considerazione l’osservazione presentata dal governo in merito alla qualità di vittime dei ricorrenti. La Camera, evidenziando ancora una volta (come già affermato in alcune sentenze precedenti, tra cui Ozturk c. Turchia, e la recentissima sentenza resa dalla Corte nel caso Tagayeva e altri c. Russia, sulla quale ci permettiamo di rinviare al nostro post) che il provvedimento di revoca preso dalla Corte d’assise non sana la situazione che si è verificata a danno dei ricorrenti, ha rigettato l’argomento avanzato dal governo turco e ha dichiarato il ricorso ricevibile. La Corte ha infatti nuovamente chiarito che un provvedimento favorevole agli individui che hanno subito una violazione non è di per sé sufficiente a far venire meno lo status di vittima, a meno che non sia espressamente o sostanzialmente riconosciuta la violazione commessa da parte dello Stato (v. § 18 della sentenza: “[l]a Cour rappelle qu’une décision ou mesure favorable au requérant ne suffit en principe à lui retirer la qualité de «victime» que si les autorités nationales ont reconnu, explicitement ou en substance, puis réparé la violation de la Convention”).
Quanto al merito, in effetti, l’art. 10 della CEDU tutela un diritto non assoluto, ma che, ai sensi del suo secondo comma, può essere “sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario” (cors. agg.). Pertanto, posto che la misura presa dalle autorità turche è stata comminata ai sensi di una disposizione legislativa, l’esame nel merito da parte della Corte ha dovuto valutare se la misura presa a danno dei due ricorrenti costituisse o meno una misura necessaria ai sensi dell’art. 10(2).
La Corte, pur tenendo in conto il fatto che la lotta al terrorismo comporta difficoltà e problematiche molteplici, ha affermato che l’elemento essenziale da prendere in considerazione è l’esistenza o meno di elementi di odio e violenza all’interno dell’intervista rilasciata dagli esponenti dei gruppi illegali. La Corte è dunque entrata nel merito della misura presa dallo Stato turco, esaminando se una multa e il divieto di pubblicazione del giornale fossero un provvedimento appropriato nell’ambito di quanto previsto dall’art. 10. E pertanto, poiché, da un lato, l’intervista non contiene alcuna esaltazione né appello alla violenza, alla resistenza armata o al sollevamento popolare e, dall’altro, non costituisce in alcun modo un discorso che incita all’odio, i motivi della condanna non sono stati ritenuti sufficienti a giustificare l’ingerenza statale nel diritto dei ricorrenti. La Corte ha riscontrato, pertanto, una violazione dell’art. 10 della Convenzione.
I ricorrenti hanno anche lamentato la violazione dell’art. 6(1) CEDU, dichiarando che le sentenze loro comminate non erano state sufficientemente motivate e che gli organi preposti a giudicare il loro caso mancavano di indipendenza e imparzialità. In relazione a questa richiesta, la Corte non ha ritenuto necessario pronunciarsi. Essa infatti non ha rilevato alcuna apparente violazione dell’articolo contestato, in relazione alla pretesa mancanza di indipendenza e imparzialità dei giudici. Ha giudicato ricevibile il ricorso sull’art. 6(1) sotto il profilo della mancanza di sufficienti motivazioni della decisione presa dai giudici ma, avendo riscontrato la violazione dell’art. 10, non ha ritenuto necessario (“il n’y a pas lieu de procéder”) esaminare la richiesta dei ricorrenti.
In conclusione, per giudicare l’appropriatezza della misura presa dalle autorità turche, la Corte ha ritenuto dirimente la presenza, all’interno dell’intervista rilasciata, di elementi di violenza o di odio: non riscontrando elementi di questo tipo, ha ritenuto illegittimo il provvedimento comminato ai due ricorrenti. In questo modo, la sentenza contribuisce a delineare sempre più chiaramente alcuni aspetti del diritto alla libertà di espressione e, soprattutto, definisce più dettagliatamente l’ambito dell’azione statale qualora si riveli necessario limitare l’esercizio di questo diritto.