Tutti per uno o ognuno per sé? La risoluzione 2249 del Consiglio di sicurezza e i limiti di un’azione “s-coordinata” nella lotta contro lo Stato Islamico


Il 16 novembre, a soli tre giorni dagli attentanti di Parigi, durante il suo discorso davanti al Parlamento riunito in sede congiunta a Versailles, il presidente francese, François Hollande, ha confermato di aver chiesto la convocazione di una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite durante la quale sottoporre allo stesso una bozza di risoluzione relativa alla volontà comune di lottare contro il terrorismo internazionale di matrice jihadista. La decisione di Hollande sottolinea la volontà francese di lottare contro lo Stato Islamico e contro il terrorismo restando fedele ai propri valori e soprattutto di volerlo fare tramite una cooperazione internazionale. Lo stesso François Delattre, rappresentante permanente della Francia alle Nazioni unite, ha precisato durante la riunione del pomeriggio del 20 novembre per l’approvazione della bozza S/2015/890, che la Francia, in quanto membro fondatore delle Nazioni unite, crede profondamente nella raison d’être dell’organizzazione universale nata nell’ottobre del 1945: le Nazioni unite stringono nelle proprie mani il primato della sicurezza collettiva ed è dunque verso il Consiglio di sicurezza che il Presidente francese si è naturalmente voltato per organizzare e mobilitare l’azione internazionale contro il terrorismo.

Proprio durante la riunione del 20 novembre, ad una settimana esatta dagli attentati di Parigi, il Consiglio di sicurezza ha adottato all’unanimità la risoluzione n. 2249 (2015), proposta appunto dalla Francia, sulle minacce contro la pace e la sicurezza internazionali derivanti da atti di terrorismo. Come avviene di consueto con le risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza, anche la n. 2249 può essere divisa in due parti: un preambolo, nel quale si precisa il contesto politico e giuridico alla base della risoluzione adottata, e una parte, che potremmo definire “operativa”, in cui il Consiglio di sicurezza raccomanda od ordina agli Stati quali misure adottare. È generalmente proprio in quest’ultima parte che il Consiglio inserisce eventuali misure coercitive adottate ex cap. VII della Carta delle Nazioni unite.

Nel caso specifico della risoluzione 2249, nella prima parte, il Consiglio di sicurezza, dopo aver precisato il contesto giuridico emblematicamente rappresentato da risoluzioni di fondamentale importanza per la lotta al terrorismo, quali, in particolare, la 1267 (1999), la 1368 (2001) e la 1373 (2001), definisce l’attuale minaccia terroristica come una minaccia globale senza precedenti, confermando la propria determinazione a combattere le organizzazioni terroristiche con ogni mezzo. La minaccia terroristica proveniente dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (noto anche con il nome di Daesh), ma anche dal Fronte al-Nusra e da tutti gli altri individui, gruppi, imprese ed entità associate ad al-Qaeda, è anzi una delle minacce più gravi contro la pace e la sicurezza internazionali tanto più se si considera la carica ideologica che la caratterizza.

Nella seconda parte della risoluzione, paragrafi 1-7, il Consiglio di sicurezza condanna prima di tutto gli attentati terroristici commessi dall’ISIS nell’arco del 2015 che hanno avuto luogo il 26 giugno a Sousse, il 10 ottobre ad Ankara, il 31 ottobre nei cieli del Sinai, il 12 novembre a Beirut e il 13 novembre a Parigi, a cui devono aggiungersi tutte le altre azioni criminose, come la presa di ostaggi e le esecuzioni, commesse da Daesh. A tutte le vittime e alle loro famiglie, ai cittadini e ai governi, toccati da questi atti riprovevoli, il Consiglio di sicurezza esprime la sua più sincera vicinanza. Accanto alle azioni e agli attentanti menzionati, il Consiglio condanna in egual misura le violazioni sistematiche e generalizzate dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale umanitario (DIU), nonché la barbara distruzione del patrimonio culturale che l’ISIS continua a commettere in Iraq e in Siria. A tal fine, il Consiglio di sicurezza riafferma, al par. 4 della risoluzione, che gli autori di simili crimini devono essere perseguiti e puniti.

Ma il vero cuore della risoluzione è il par. 5: il Consiglio di sicurezza domanda agli Stati membri “qui ont la capacité de le faire de prendre toutes les mesures nécessaires, conformément au droit international, en particulier à la Charte des Nations Unies, au droit international des droits de l’homme, au droit international des réfugiés et au droit international humanitaire, sur le territoire se trouvant sous le contrôle de l’EIIL, également connu sous le nom de Daech, en Syrie et en Iraq, de redoubler d’efforts et de coordonner leur action en vue de prévenir et de faire cesser les actes de terrorisme commis en particulier par l’EIIL, également connu sous le nom de Daech, ainsi que par le Front el-Nosra et tous les autres individus, groupes, entreprises et entités associés à Al-Qaida, ainsi que les autres groupes terroristes qui ont été désignés comme tels par le Conseil de sécurité de l’Organisation des Nations Unies”. Analizzando il paragrafo in questione deve innanzitutto sottolinearsi la mancanza di qualsiasi riferimento esplicito al cap. VII o a misure ex artt. 41 e/o 42, riferimento assente del resto in tutto il testo della risoluzione. Assente anche la tipica formula utilizzata dal Consiglio per autorizzare l’uso della forza (“intraprendere ogni misura necessaria”), sostituita in questo caso da un più generico riferimento alla volontà degli Stati, che ne abbiano le capacità, di impiegare tutte le misure necessarie. La risoluzione 2249 non sembra contenere, dunque, autorizzazioni, né esplicite né implicite, all’uso della forza in Iraq e in Siria, lasciando agli Stati aperta la possibilità di agire in base a quelle stesse giustificazioni adoperate fino a questo momento.

Su questo punto occorre fare pertanto una precisazione: gli attori internazionali presenti in Siria e in Iraq per combattere l’avanzata dello Stato Islamico non costituiscono un unicuum giuridico. In particolare, la Russia di Putin ha iniziato i bombardamenti sul territorio siriano contro i gruppi anti-governativi su esplicito invito del governo legittimo siriano, quello di Assad. Così come si evince dall’art. 20 del progetto di articoli della Commissione di diritto internazionale (CDI) sulla responsabilità internazionale dello Stato, “il consenso validamente dato da uno Stato alla commissione da parte di un altro Stato di un atto determinato esclude l’illiceità di tale atto nei confronti del primo Stato sempre che l’atto medesimo resti nei limiti del consenso”. L’atto di esclusione dell’illecito, che si configura come un atto unilaterale da parte dello Stato autorizzante, è riconducibile al principio emblematicamente riassunto nel noto brocardo latino volenti non fit iniuriae. Nel caso specifico e per ciò che riguarda l’intervento russo, dunque, è esclusa automaticamente, proprio grazie alla richiesta da parte del governo siriano, la responsabilità per illecito internazionale, che si sarebbe viceversa potuto configurare come un atto di aggressione diretta,  da parte della Russia.

Diverso è, invece, il ragionamento che deve farsi per la coalizione guidata dagli Stati Uniti e che comprende ben 64 soggetti tra paesi occidentali, arabi e organizzazioni internazionali. In questo caso la coalizione agisce in supporto e in cooperazione con il governo iracheno, il quale nel settembre 2014 ha invocato il diritto di legittima difesa collettiva ex art. 51 della Carta delle Nazioni unite. Fermi restando taluni dubbi circa la possibilità di invocare la legittima difesa a seguito di attacchi armati da parte di gruppi o enti che non godono di piena soggettiva internazionale, secondo una parte della dottrina anche in questo caso, per quanto riguarda cioè l’intervento della coalizione in Iraq, sarebbe esclusa la responsabilità internazionale degli Stati sia ex art. 20 sia ex art. 21 del progetto della CDI: “l’illiceità di uno Stato è esclusa se l’atto costituisce una misura di legittima difesa presa in conformità alla Carta delle Nazioni Unite”. Dubbi ancora più consistenti in merito alla copertura giuridica possono sollevarsi, del resto, sull’intervento militare della coalizione internazionale in territorio siriano sebbene questo sia stato giustificato, da parte della dottrina e dalle amministrazioni dei paesi coinvolti, in base all’incapacità e finanche alla reticenza del governo siriano di prevenire gli attacchi condotti dall’ISIS in territorio iracheno.

La risoluzione del 20 novembre, dunque, risulta fondamentale in questo senso in quanto, sebbene non modifichi giuridicamente la situazione, costituendo il riconoscimento fermo su scala internazionale della minaccia posta dall’ISIS, chiede agli Stati di agire, in un quadro legale e coordinato, con l’obiettivo di prendere tutte le misure necessarie per contrastare l’ISIS e per eliminare “le sanctuaire” che ha creato su gran parte del territorio siriano e iraqeno. La risoluzione, insomma, sembra avere un peso e un valore principalmente politico tramite il quale si intende confermare legittimità alle azioni militari sul territorio siriano intraprese da Stati che sono, tra l’altro, anche membri permanenti del Consiglio di sicurezza.

Va tuttavia aggiunto che la risoluzione 2249 ha comunque almeno un’importante conseguenza giuridica: avendo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite definito gli attentanti che hanno avuto luogo nel Sinai e a Parigi, come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali, la Russia e la Francia sarebbero tanto più autorizzate ad invocare a propria volta la legittima difesa, individuale e/o collettiva, contro l’ISIS ai sensi dell’art. 51 della Carta ONU. L’esistenza di un attacco armato nei confronti di un paese membro delle Nazioni unite costituisce infatti la condizione necessaria affinché uno Stato possa utilizzare la forza in legittima difesa: ciò vale senz’altro quando l’attacco è, in base alle regole sulla responsabilità internazionale degli Stati, attribuibile ad uno Stato; più discutibilmente, se invece tale attacco fosse portato da un gruppo di privati, del tutto slegati da qualsivoglia legame con organi statali. È evidente che, scendendo maggiormente in profondità, la questione si ricollega al dibattito circa la statualità del sedicente Stato Islamico.

In questo senso la Francia sembra aver intrapreso un preciso percorso politico: lo stesso Delattre ha specificato, durante la riunione del 20 novembre, che gli attacchi del 13 novembre hanno costituito un’aggressione armata contro la Francia. Le azioni militari conseguenti intraprese dalla Francia sono dunque giustificate dalla legittima difesa individuale conformemente all’art. 51 della Carta delle Nazioni unite. Ed è proprio sulla base della risoluzione 2249, una risoluzione che Delattre non esita a definire “historique”, che la Francia continuerà e amplificherà i suoi sforzi per mobilitare tutta la comunità internazionale al fine di sconfiggere il nemico comune. Sul piano militare, così come annunciato dal presidente Hollande, la Francia triplicherà la propria capacità: emblematico di questo rinnovato impegno il dispiegamento nella regione mediorientale della portaerei Charles-de-Gaulle.

Il riferimento alla legittima difesa operato dalla Francia, riferimento che implicitamente riconduce i fatti del 13 novembre ad un atto di aggressione da parte di un altro Stato, potrebbe leggersi come una sorta di tacito riconoscimento della statualità del gruppo Stato Islamico (ricordiamo che il riconoscimento è sempre e solo un atto dal carattere politico, essendo la soggettività la conseguenza del godimento di due requisiti, effettività e indipendenza, che sono requisiti pre-giuridici, frutto cioè di una mera situazione di fatto e non di diritto). Questa lettura sembrerebbe confermata anche dall’azione francese intrapresa a livello europeo. Nei giorni successivi gli attentati di Parigi la Francia ha richiesto, ed ottenuto, l’attivazione di quel meccanismo previsto dall’art. 42, par. 7, TUE che si configura come una sorta di clausola di solidarietà. Ora, l’articolo 42, par. 7, si riferisce esplicitamente ai casi di “aggressione armata” condotta nel territorio di uno Stato membro. Il TFUE (art. 222) prevede un’altra clausola di solidarietà: “1. L’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo. L’Unione mobilita tutti gli strumenti di cui dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione dagli Stati membri, per: a) — prevenire la minaccia terroristica sul territorio degli Stati membri; — proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione civile da un eventuale attacco terroristico; — prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio, su richiesta delle sue autorità politiche, in caso di attacco terroristico; b) prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio, su richiesta delle sue autorità politiche, in caso di calamità naturale o provocata dall’uomo. 2. Se uno Stato membro subisce un attacco terroristico o è vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo, gli altri Stati membri, su richiesta delle sue autorità politiche, gli prestano assistenza. A tal fine gli Stati membri si coordinano in sede di Consiglio. […]”. Quella che sembrerebbe quasi una “svista” giuridica da parte delle autorità francesi in realtà potrebbe forse più ragionevolmente essere interpretata alla luce dell’intento politico perseguito: innalzare la minaccia proveniente dal gruppo Stato Islamico configurandola non come un “mero” atto terroristico (da qui deriva la scelta di non invocare l’art. 222 TFUE) ma come un atto di aggressione proveniente da uno Stato; da ciò dunque, deriva, da un lato il discorso sulla legittima difesa fatto da Delattre durante la riunione del CdS e, dall’altro, l’invocazione dell’art. 42, par. 7, TUE in sede europea.

Nei successivi paragrafi, 6 e 7, della risoluzione, il Consiglio di sicurezza invita poi gli Stati membri a intensificare i propri sforzi per sradicare il flusso di combattenti terroristi stranieri, i cosiddetti foreign fighters, e per eliminare le fonti di finanziamento del terrorismo (in entrambi i casi potrebbe finanche leggersi un velato riferimento alla Turchia, principale territorio di passaggio dei foreign fighters jihadisti europei nonché del petrolio contrabbandato dall’ISIS e usato dallo stesso come principale fonte di finanziamento); contestualmente il Consiglio di sicurezza esprime la propria intenzione di attualizzare rapidamente la lista del Comitato per le sanzioni creato con la Risoluzione 1267 (1999) risoluzione 1267 (1999) al fine di fornire un ulteriore strumento che possa rendere maggiormente efficace la lotta contro lo Stato Islamico.

Infine, è doveroso sottolineare la completa assenza nel testo della risoluzione di qualsivoglia accenno ai governi legittimi della Siria e dell’Iraq. A tal proposito, la Russia avrebbe voluto inserire nella risoluzione 2249 un richiamo al fatto che ogni intervento della coalizione internazionale in Siria avrebbe dovuto essere concordato con il governo legittimo di Bashar al-Assad; la proposta russa non è stata accettata dalla Francia e di conseguenza non vi è alcun riferimento in tal senso nella risoluzione. Sebbene la Russia abbia comunque deciso di non far valere il proprio diritto di veto in seno al Consiglio di sicurezza in riferimento alla risoluzione 2249, l’episodio è emblematico della discrasia esistente all’interno della presunta coalizione anti-ISIS. Il fattore decisivo, quello che ormai da mesi divide la coalizione, è proprio il futuro del regime di Assad.

I tragici fatti di Parigi hanno fatto credere che si potessero finalmente superare le differenze per potersi concentrare sull’obiettivo comune della lotta contro lo Stato Islamico. Si era sperato in un’azione del Consiglio di sicurezza più convinta che potesse avere l’effetto di creare un ampio e soprattutto solido fronte anti-ISIS. E invece, nonostante la risoluzione del 20 novembre, l’azione militare in Siria e in Iraq persiste idiosincratica, sia nei suoi presupposti giuridici sia nella sua realizzazione. Ciascun paese continua ad intervenire in Siria con una propria giustificazione giuridica; ma soprattutto ciascun paese della coalizione continua a seguire propri e specifici interessi nell’intervento militare. In particolare, tra i soli membri permanenti del Consiglio di sicurezza la divisione di fondo tra il fronte pro-Assad, rappresentato dalla Russia, e il fronte contrario alla permanenza del dittatore siriano, costituito dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia, rischia di rendere impossibile qualsivoglia concreta decisione. Il rischio che si corre continuando a procedere su binari diversi è, innegabilmente, quello del risultare inefficaci.

La risoluzione del Consiglio di sicurezza, insomma, non sembra aver sanato quei problemi preesistenti rispetto ai fatti di Parigi; problemi che in parte potrebbero risolversi qualora la Francia, membro della NATO, decidesse di invocare l’art. 5 del Trattato del Nord Atlantico. Quest’ultimo prevede una sorta di clausola di solidarietà per cui un attacco contro uno Stato membro è da considerarsi come un attacco contro tutti i membri, facendo sorgere quindi, in capo a quest’ultimi, l’obbligo di prestare l’assistenza militare che giudicheranno necessaria, ivi compreso l’impiego della forza armata. In altri termini, gli alleati NATO hanno l’obbligo di assistere lo Stato attaccato nell’esercizio della legittima difesa collettiva così come prevista dalla Carta delle Nazioni Unite. È opportuno ricordare che, da un lato, la clausola di solidarietà prevista dall’art. 5 è scattata soltanto una volta in occasione proprio di un altro attacco terroristico, quello dell’11 settembre 2001; dall’altro,  che la reazione in applicazione del principio di legittima difesa collettiva, ex art. 51, non deve essere autorizzata dal Consiglio di Sicurezza.