
Il 24 novembre 2015, a seguito degli attentati di Parigi, la Francia ha deciso di prendere misure di sicurezza straordinarie, ed estendere lo stato di emergenza già dichiarato unilateralmente dal presidente François Hollande il giorno dopo gli attentati. Le misure in oggetto, come comunicato dalle autorità francesi al Segretario generale del Consiglio d’Europa, potrebbero comportare una deroga ad alcuni diritti sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questo modo, la Francia si avvale dell’art. 15 CEDU che permette appunto agli Stati che stiano vivendo uno stato emergenziale particolarmente grave tale da “minacciare la vita della nazione” di derogare ad alcuni dei diritti tutelati dalla Convenzione.
Naturalmente, vi sono alcune disposizioni che, per l’importanza del principio sancito e del diritto tutelato, non sono derogabili: esse affermano principi particolarmente importanti che, come specificato nello stesso art. 15(2), sono enucleati negli artt. 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti), 4(1) (divieto di schiavitù) e 7 (nulla poena sine lege). Un caso peculiare riguarda l’art. 2 (diritto alla vita): esso infatti è in linea generale inderogabile, ma viene fatta salva la possibilità di perdita di vite umane conseguenti a legittimi atti di guerra. La deroga, così come prevista dall’art. 15, può essere esercitata solo per un periodo limitato ed è strettamente legata all’emergenza in cui lo Stato versa. Per avere piena efficacia, deve esserne informato il Segretario generale del Consiglio d’Europa, al quale deve essere data comunicazione sia dell’entrata in vigore della misura con la quale lo Stato si avvale del diritto di deroga, sia della sua cessazione. La deroga, infatti, come emerge dalla giurisprudenza della Corte, non può essere prevista per un periodo indefinito: essa è una misura eccezionale e in quanto tale non può diventare la regola. Inoltre, qualora lo Stato derogante invochi l’art. 15 in relazione a specifici ricorsi presentati di fronte alla Corte, sarà la stessa Corte a pronunciarsi sulla validità della deroga e a verificare se essa è stata invocata conformemente a quanto previsto dall’art. 15 CEDU. Peraltro, benché la Corte sia competente a giudicare sull’appropriatezza o meno della deroga, essa ha spesso garantito un ampio margine di apprezzamento agli Stati: come emerge dalla sentenza Irlanda c. Regno Unito (1978), infatti, le autorità nazionali si trovano in una posizione più appropriata rispetto a quella del giudice internazionale per valutare cosa costituisca una emergenza che minaccia la vita della nazione e cosa, invece, non lo è.
Tornando all’attuale deroga francese, come detto, già a seguito degli attentati di Parigi, il presidente François Hollande aveva dichiarato lo stato di emergenza per dodici giorni, unilateralmente e senza sottoporre la decisione all’esame del Parlamento. Allo scadere del periodo previsto dal decreto, sarebbe stato il Parlamento stesso a pronunciarsi sulla questione, ma la scadenza non è mai stata raggiunta, in quanto l’Assemblea nazionale ha dichiarato lo stato d’emergenza per tre mesi, a partire dal 26 novembre 2015. La misura presa dal Parlamento francese (che ha approvato una modifica alla legge 55-385 del 1955 sullo stato d’emergenza, con una velocità peraltro sorprendente – solo quattro giorni) espande il potere del governo di imporre arresti domiciliari senza autorizzazione da parte di un giudice, perquisizioni senza mandato, nonché blocco di siti ritenuti inneggianti al terrorismo e sequestro di file contenuti nei computer che vengono reperiti nel corso delle suddette operazioni. Come si evince chiaramente, sono poteri che confliggono con alcuni principi fondamentali dei diritti individuali, tra cui, ma non esclusivamente, il diritto alla libertà di movimento (mettendo dunque in discussione l’art. 5 CEDU) e il diritto alla libera associazione e alla libertà di espressione (art. 10 CEDU).
È la prima volta che la Francia invoca l’art. 15 CEDU. Non è tuttavia la prima volta che viene fatto uso di questo articolo ed è interessante notare come tutte le altre deroghe precedentemente comunicate al Segretario generale del Consiglio d’Europa siano conseguenti ad attentati terroristici o, più in generale, siano state adottate a causa dell’azione di un gruppo terroristico, la cui minaccia ha richiesto misure emergenziali e straordinarie.
La prima deroga è stata utilizzata nel 1957, da parte dell’Irlanda, a causa dell’attività terroristica perpetrata dall’IRA, e a essa è seguita, pochi anni dopo, la sentenza Lawless c. Irlanda (n. 3) (1961), nella quale la Corte ha esaminato la detenzione di un ricorrente nordirlandese che, senza alcun provvedimento da parte di un giudice, fu tenuto in custodia da luglio a dicembre 1957. Nella sentenza, la Corte ha giudicato dapprima la validità della deroga (ravvisando che l’immediata comunicazione da parte delle autorità irlandesi al Segretario generale del Consiglio d’Europa permetteva di considerare la deroga apposta conforme all’art. 15), per poi passare all’esame nel merito, nel quale ha riscontrato che la detenzione lamentata dal ricorrente non poteva essere considerata una violazione della Convenzione in quanto comminata a seguito della deroga stessa.
Il paese membro che ha fatto maggiore uso del diritto di deroga è stato il Regno Unito. Già nel 1978, infatti, la Corte si è pronunciata in uno dei rari ricorsi interstatali esperiti ai sensi dell’art. 33 CEDU, il già citato caso Irlanda c. Regno Unito, in cui le autorità irlandesi lamentavano l’ampiezza delle misure utilizzate da parte del Regno Unito per fronteggiare il terrorismo in Irlanda del Nord, e in particolar modo l’uso di tecniche di interrogatorio particolarmente invasive. Nel caso di specie, la Corte dichiarò che i metodi esaminati (che includevano privazione di cibo e di sonno) configuravano una violazione dell’art. 3 (al quale, lo ricordiamo, neanche in casi di emergenza nazionale è concesso derogare), ma non degli artt. 5 e 14, analizzati dalla Corte alla luce del criterio di proporzionalità tra la misura contestata e l’emergenza fronteggiata dal paese. Tale criterio è stato ritenuto dirimente anche in altre occasioni: infatti, nel caso Brannigan e McBride c. Regno Unito (1993), nel quale la Corte ha giudicato sulla detenzione prolungata dei ricorrenti in assenza di un provvedimento del giudice, neppure è stata ravvisata una violazione dell’art. 5, in quanto il Regno Unito aveva regolarmente derogato alla Convenzione e aveva preso un provvedimento sicuramente restrittivo del diritto di libertà, ma che la Corte ha reputato proporzionale all’emergenza terroristica.
Dello stesso diritto si è avvalsa, infine, anche la Turchia, per via di alcuni provvedimenti a carattere emergenziale presi in relazione all’attività armata condotta dal PKK nel 1990. Dapprima, lo Stato ha comunicato la deroga a ben sei disposizioni della Convenzione (artt. 5, 6, 8, 10, 11 e 13), limitandola poi successivamente al solo art. 5, come si evince dalla lettera inviata dal Rappresentante permanente della Turchia presso il Consiglio d’Europa al Segretario generale in data 5 maggio 1992. Anche qui la Corte si è pronunciata, in un ricorso esaminato in prima istanza dall’allora Commissione, e poi passato all’esame della Corte stessa. In particolare, infatti, nel caso Aksoy c. Turchia (1996), riscontrò una violazione dell’art. 3 CEDU, a causa dei pesanti maltrattamenti cui era stato sottoposto il ricorrente durante il periodo di custodia. La Corte ritenne inoltre che, al contrario di quanto avvenuto nel caso Brannigan e McBride, il provvedimento di custodia senza alcun controllo preventivo da parte di un giudice era lesivo del diritto sancito dall’art. 5 (benché ad esso la Turchia avesse apposto deroga) ed eccedeva i criteri di proporzionalità.
Per ciò che concerne, invece, gli ultimi anni e in particolare quanto accaduto dopo il 2000, è stato di nuovo il Regno Unito ad utilizzare la clausola di deroga a seguito degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, quando, con inusuale velocità, il Parlamento di Westminster approvò l’Antiterrorism Crime and Security Act, che espressamente derogava all’art. 5 CEDU. La sezione più controversa di questo atto era sicuramente la Parte IV, oggi abrogata grazie ad una pronuncia della House of Lords del 2004. Questa sezione, che si occupava nello specifico di immigrazione e asilo, concerneva la detenzione di stranieri sospettati di reati di terrorismo e fu adottata in deroga all’art. 5 della Convenzione, in quanto prevedeva la possibilità di detenere per un periodo potenzialmente indefinito, e senza alcuna accusa formale, individui stranieri sospettati di terrorismo, che non potessero essere estradati. La Corte, a tal proposito, ha esaminato nel dettaglio sia la deroga apposta dal Regno Unito, sia l’atto del 2001, sia i termini in cui l’art. 5 garantisce il diritto alla libertà personale, evidenziando che tale principio si applica a tutti indistintamente. Alla luce di quest’ultima disposizione, ha giudicato la detenzione senza processo dei ricorrenti un provvedimento sproporzionato, nonostante la deroga, in quanto ingiustificatamente discriminatorio nei confronti di individui stranieri.
Dopo la deroga britannica del 2001, l’ultimo caso in cui un membro della CEDU ha apposto una deroga alla Convenzione è la recentissima esperienza francese. Come visto, allo stato attuale, ne è stata data tempestiva comunicazione al Segretario generale del Consiglio d’Europa: sarà poi la Corte a pronunciarsi sulla proporzionalità delle misure prese, se e quando ci saranno dei ricorsi in cui i ricorrenti contesteranno dei provvedimenti o delle presunte violazioni della Convenzione conseguenti alla deroga. Il timore, in questa circostanza, non è tanto relativo alla deroga in sé e alla proporzionalità della misura presa dal governo, che pare possa essere legittima sia in termini materiali, di emergenza nazionale, alla luce dei recenti attentati che hanno colpito il cuore della Francia, che dei requisiti di forma, in quanto prontamente comunicata al Consiglio d’Europa; più preoccupante è l’ampia discrezionalità e gli ampi poteri conferiti alle forze di polizia, che potrebbero comportare pericolosi abusi.
È soprattutto nei casi di emergenza nazionale che si misura la solidità dell’apparato legislativo e giudiziario degli Stati, messi a dura prova da minacce alla vita della nazione. Ma è proprio in questi casi che, di fronte alla minaccia terroristica, lo Stato deve dimostrare di essere in grado di combattere efficacemente e con vigore un pericolo internazionale, senza rischiare di ipotecare i diritti fondamentali degli individui. Come ricordato dall’ex presidente della Corte suprema israeliana Aharon Barak, nel caso Public Committee against torture v. Government (2006): “The war of the state against terrorism is a war of the state against its enemies. It is also the war of the law against those who attack it”. In tal senso, questa “guerra” del diritto contro il terrorismo, non può avvenire se non con metodi legali e pienamente conformi (anche) al diritto internazionale. Peraltro, si evince dall’attualità internazionale ormai dell’ultimo secolo che la minaccia terroristica è un pericolo che, benché con andamento oscillante, ricorre periodicamente e può essere sconfitta solo attraverso una strategia a lungo termine. Ripetute deroghe alla Convenzione rischiano di inficiare profondamente la tutela dei diritti fondamentali degli individui i quali, soprattutto in situazioni di emergenza e di pericolo, devono trovare nello Stato un difensore e non un nemico.