
La perdurante instabilità nell’area mediorientale e l’attuale crisi derivante dall’imponente flusso di migranti e richiedenti asilo in Europa hanno spinto alcuni dei paesi europei facenti parte dell’area Schengen a reintrodurre i controlli alle rispettive frontiere. Prima la Germania e la Francia nel 2015, poi la Danimarca e la Svezia solo pochi giorni fa, hanno introdotto nuovamente, benché temporaneamente, i controlli ai documenti di identità in alcuni luoghi di confine. In particolare, la misura recentemente varata dal governo svedese, che ha stabilito il controllo dei documenti alla frontiera sul ponte Oresund, preoccupa non soltanto i paesi direttamente coinvolti (in particolare, la Danimarca), ma l’intera Unione europea, che della libera circolazione delle persone ha fatto uno dei suoi principi fondamentali, anche grazie alla creazione della c.d. area Schengen.
L’accordo di Schengen, siglato nel 1985, ed entrato in vigore nel 1995, ha abolito definitivamente i controlli alle frontiere tra i paesi che hanno deciso di aderirvi, prevedendo, allo stesso tempo, la creazione di una frontiera comune all’esterno dei paesi in questione: il confine esterno permette di non alterare la sicurezza interna (oggi dell’Unione) e, contestualmente, crea uno spazio di libera circolazione all’interno dei paesi membri. Le disposizioni dell’accordo sono entrate a far parte a pieno titolo del diritto dell’Unione (e allora comunitario) attraverso l’incorporazione operata dal Trattato di Amsterdam del 1997, con il quale l’aquis di Schengen è stato integrato definitivamente nell’ambito dell’Unione europea. Correntemente, i membri sono 26. Essi, tuttavia, non si identificano interamente con i paesi dell’Unione europea, in quanto quattro nazioni (Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein), pur non essendo membri dell’Unione, hanno aderito all’accordo; viceversa, come si evince chiaramente dal numero totale di Stati che fanno parte dell’area Schengen, non tutti i membri dell’Unione hanno aderito al patto: 22 paesi ne sono parte, mentre ne restano fuori, per varie ragioni, Gran Bretagna, Irlanda, Bulgaria, Romania, Cipro e Croazia.
Attualmente, l’area Schengen sembra essere messa in pericolo a causa degli imponenti flussi migratori (in particolare di richiedenti asilo, molti dei quali provenienti dalla Siria) che tentano di raggiungere il suolo europeo e specialmente il Nord Europa. La Svezia, l’ultimo paese in ordine temporale a sospendere la libera circolazione alla frontiera con la Danimarca, ha ricevuto, soltanto nel 2015, quasi 100.000 richieste di asilo: la cifra maggiore in tutta l’Unione europea in rapporto alla popolazione del paese. Per arginare l’imponente flusso di migranti, il governo svedese ha deciso di ripristinare i controlli ai documenti dei viaggiatori che attraversano l’Oresund, il gigantesco ponte che unisce la Danimarca al suolo svedese, collegamento fondamentale tramite il quale migliaia di viaggiatori si spostano quotidianamente tra Danimarca e Svezia. A chiunque sia trovato sprovvisto di un valido documento di identità con foto può essere rifiutato l’accesso in Svezia. Alla base di questo provvedimento, l’alto numero di migranti irregolari che, attraverso l’Oresund, sarebbero passati dalla Danimarca alla Svezia negli ultimi mesi. Solo poche ore dopo l’annuncio della reintroduzione dei controlli, che ha causato pesanti ritardi negli spostamenti dei viaggiatori, anche la Danimarca ha fatto lo stesso, ma al confine con la Germania, che è invece il paese che riceve il maggior numero di richiedenti asilo in tutta l’Unione europea. E proprio Berlino, per proteggere i propri interessi e la propria sicurezza nazionale, sembra pensare alla possibilità di proporre un’area Schengen ristretta, limitata ad alcuni, più “forti”, paesi europei tra i quali mantenere non soltanto la libera circolazione delle persone ma anche la moneta unica. Il repentino ripristino dei controlli di frontiera in vari paesi dell’Unione è sintomo, dunque, di un duplice problema: da un lato, l’evidente e massiccio flusso di migranti e richiedenti asilo; ma, dall’altro, l’altrettanto evidente difficoltà dell’Unione europea (e di alcuni paesi in particolare) nella gestione ottimale degli arrivi di migliaia di persone.
Il Codice delle frontiere Schengen (istituito con regolamento comunitario 562/2006, da ultimo modificato con regolamento UE 1051/2013), prevede, in caso di emergenza nazionale, la possibilità per uno o più paesi parte dell’area Schengen di reintrodurre, solo per un periodo limitato, i controlli a una parte o a tutte le frontiere interne. È quanto accaduto, già prima dei recenti casi svedese e danese, alla Germania (che nel settembre 2015 ha reintrodotto alcuni controlli alla frontiera con l’Austria, attraverso la quale un ingente numero di migranti irregolari era arrivato sul suolo tedesco partendo dall’Ungheria) e alla Francia, che ha reintrodotto alcuni controlli a seguito degli attentati di Parigi del 13 novembre e che peraltro già nel 2005, in seguito agli attentati di Londra, aveva ripristinato temporaneamente i controlli di frontiera.
Secondo quanto previsto dall’art.23(1) del Codice delle frontiere Schengen, così come emendato dal regolamento 1051/2013, è possibile, in via del tutto eccezionale, reintrodurre i controlli in uno o più punti della propria frontiera, “in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna di uno Stato membro nello spazio senza controllo alle frontiere”. L’eventualità stessa che gli Stati reintroducano, seppur temporaneamente, i controlli, mira a rispondere alle esigenze di sicurezza interna che gli Stati potrebbero avere in caso di eventi straordinari che richiedano misure di sicurezza più rigide. La stessa disposizione, peraltro, sottolinea che la misura in oggetto deve essere eccezionale e strettamente necessaria a fronteggiare la minaccia o il pericolo in questione (un provvedimento di extrema ratio). Proprio la prassi statale relativa al ripristino dei controlli alle frontiere conferma l’orientamento adottato dal Codice, in quanto, qualora una reintroduzione si sia resa necessaria in passato, ciò è avvenuto in seguito ad eventi eccezionali, che avrebbero potuto causare pericoli alla popolazione e alla nazione intera, come un attentato terroristico (la Francia nel 2005 e nel 2015) o un flusso di migranti – e richiedenti asilo – particolarmente elevato, tale da rendere complessa, se non impossibile, l’identificazione di chi entra sul suolo europeo. Secondo la stessa disposizione, la durata massima del provvedimento deve essere di trenta giorni o della “durata prevedibile della minaccia grave se questa supera i trenta giorni”.
È proprio la temporaneità della misura, il lasso di tempo così limitato, ad evidenziare la residualità di questa misura e, di converso, l’importanza del principio della libera circolazione delle persone sul territorio dell’Unione. Il principio della libertà di movimento e lo spazio interno comune sono infatti fondamentali affinché si dispieghino appieno tutti i benefici che l’Unione può comportare per i cittadini europei. Proprio per la straordinarietà dell’evento, che potrebbe alterare un equilibrio che ormai è stato raggiunto, con successo, da più di vent’anni, vige anche un obbligo di notifica da parte del paese che introduce la misura restrittiva. In particolare, secondo quanto stabilito dal Codice, come modificato dal regolamento 1051/2013, il paese che necessiti di ripristinare temporaneamente i controlli alle frontiere deve necessariamente notificarlo alla Commissione europea e agli altri paesi membri almeno quattro settimane prima dell’entrata in vigore del provvedimento (art. 24) o, in caso ciò non sia possibile perché si è verificata un’emergenza imminente che richiede azione immediata, la notifica avviene contestualmente al provvedimento adottato (art. 25). Ed è proprio questo che si è verificato in Svezia, la cui notifica della misura ha preceduto solo di poche ore l’inizio dei controlli alla frontiera con la Danimarca, dalla quale sono giunti molti migranti irregolari nel corso del 2015 e che ha spinto il paese, anche alla luce dei recenti avvenimenti in ambito di terrorismo internazionale, a rafforzare i controlli nell’ottica di ridurre l’immigrazione irregolare.
In questo complesso scenario, in cui gli Stati devono bilanciare le esigenze di sicurezza interna con la libera circolazione tutelata dal diritto dell’Unione europea, il timore è che a fare le spese della reintroduzione dei controlli possano essere i cittadini europei, in questo specifico frangente specialmente i cittadini svedesi e danesi che fino a pochi giorni fa attraversavano quotidianamente l’Oresund per motivi di lavoro.
Sembra verosimile, dunque, che la soluzione più completa e il più possibile definitiva, a questa necessità di bilanciamento possa essere trovata soltanto in sede europea, come peraltro auspicato dallo stesso citato regolamento 1051/2013 (considerando n. 9) e dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker che, in un recente discorso, ha esortato gli Stati membri a risolvere la crisi dei rifugiati attraverso un’azione concertata, il più possibile “europea”, che non rischi di ipotecare l’acquis di Schengen, ma che anzi lasci inalterato lo spazio di libera circolazione interna, intensificando i controlli alle frontiere esterne, che del sistema Schengen costituiscono il necessario e fondamentale corollario (se non, addirittura, il presupposto). Proprio in quest’ottica, il 15 dicembre 2015, la Commissione europea ha adottato un pacchetto di misure in cui propone la creazione di una European Border and Coast Guard Agency, che sostituirebbe e amplierebbe le responsabilità di Frontex, mediante uno scambio di informazioni e dati sempre più integrato tra gli Stati membri, al fine di tutelare maggiormente l’integrità del confine unico. In sostanza, un rafforzamento della frontiera comune, maggiori controlli al confine esterno dello spazio Schengen, che permettano così di lasciare inalterata l’area di libera circolazione interna.
Un’azione di questo tipo potrebbe permettere anche una maggiore efficacia della lotta all’immigrazione irregolare e alla criminalità internazionale, e dunque rispondere alle necessità di sicurezza interna che hanno gli Stati, senza rischiare di mettere in crisi l’intero sistema Schengen, che con l’incalzare dei fatti dell’attualità rischia di vedere ridotta la sua efficacia.