
Con una sentenza pronunciata lo scorso 23 febbraio, la Corte EDU ha condannato l’Italia per la violazione degli articoli 3, 5, 8 e 13 della Convenzione in riferimento al sequestro ed alle conseguenti torture subite da Osama Mustafa Hassan Nasr (meglio noto come Abu Omar) tra il 2003 ed il 2007. La Corte ha anche disposto il risarcimento da parte dello Stato italiano di 70.000 € a beneficio dell’Imam e 15.000 € in favore della moglie Nabila Ghani. La sentenza, anche se diverrà definitiva solo se entro tre mesi l’Italia non chiederà e otterrà un riesame da parte della Grande Camera, sembra sancire la fine di una vicenda che ebbe un’eco mediatica enorme e che colpì molto l’opinione pubblica italiana. Tutt’altro che lusinghieri i giudizi riservati dalla Corte agli atteggiamenti tenuti negli anni dai quadri politici (ma anche giudiziari) italiani, che hanno concorso a determinare uno scenario fatto di mezze verità, silenzi ed ostruzionismi. Di fatto, l’unico attore a salvarsi da una dura condanna è la magistratura milanese, alla quale è stato riconosciuto il merito di aver accertato in maniera efficiente le responsabilità degli attori coinvolti.
La decisione della Corte EDU risulta molto importante per due fattispecie in particolare. In primo luogo, essa riguarda il fenomeno delle extraordinary renditions tanto (ab)usate dalla CIA soprattutto dopo gli attentati del 2001. Non è la prima volta che la Corte si esprime su tali azioni, avendo già condannato nel 2012 la Macedonia per aver partecipato ad un’operazione simile. Ma ancora più importanti risultano essere le considerazioni ed il giudizio della Corte circa la prassi del segreto di Stato, la cui apposizione da parte del governo italiano sulle prove viene reputata come un mero strumento volto a garantire l’impunità dei responsabili.
Ma andiamo per ordine. Il protagonista della vicenda, il signor Nasr, cittadino egiziano e membro dell’organizzazione Jama’a al-Islamiya, si trasferì in Italia nel 1998, diventando Imam di Milano nel 2000 ed ottenendo lo status di rifugiato politico l’anno dopo. Per tutta la durata della sua permanenza in Italia, Nasr fu sospettato di pianificare attentati terroristici internazionali. Il 17 febbraio 2003 fu sequestrato e portato alla base militare statunitense di Aviano, dove fu fatto salire su un aereo per la base tedesca di Ramstein e da lì spedito al Cairo. Dopo essere stato rinchiuso in una cella e sottoposto periodicamente ad interrogatori mediante tortura dall’intelligence egiziana, fu rilasciato il 19 aprile 2004. Venti giorni dopo fu nuovamente arrestato e stavolta non venne liberato prima del 12 febbraio 2007. Tre giorni dopo il primo sequestro la signora Ghali (moglie di Nasr) aveva denunciato la scomparsa del marito alla polizia. Le indagini portarono la Digos a redigere e sottoporre all’attenzione del Pubblico ministero un rapporto nel febbraio 2005, nel quale si evidenziavano le responsabilità di 19 cittadini statunitensi, compreso l’allora capocentro della CIA a Milano Robert Seldon Lady, nel rapimento dell’Imam. La seconda fase delle indagini riguardò il coinvolgimento di alcuni personaggi di spicco dell’allora SISMI, al corrente dei piani della CIA. Alla fine del processo investigativo, 22 membri della CIA ed un ufficiale dell’esercito statunitense vennero condannati in absentia a pene tra i sei ed i nove anni. Cinque membri del SISMI furono invece condannati a pene tra i sei ed i dieci anni. L’azione della magistratura italiana fu costretta tuttavia ad interrompersi di fronte alla pronuncia della Corte costituzionale del 2014 che dichiarava inutilizzabili in un qualsivoglia processo le prove raccolte dai magistrati in quanto coperte dal segreto di Stato.
Il ricorso alla Corte EDU fu presentato nell’agosto 2009. In particolare, veniva denunciata da parte dell’Imam la violazione degli articoli 3 (divieto di tortura e pene o trattamenti umani e degradanti), 6 (diritto ad un giusto processo) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo) della Convenzione. Oltre a ciò, entrambi i coniugi lamentavano la violazione dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare). La Corte si è pronunciata evidenziando la violazione a danno di entrambi i coniugi degli articoli 3, 8 e 13 e dell’art. 5 a danno del solo Nasr. Il diritto ad un giusto processo (garantito dall’art. 6) è stato fatto rientrare sotto le fattispecie protette dall’art. 3. Nello specifico, la Corte ha dichiarato che le modalità con le quali è stato condotto l’arresto e la successiva sparizione dell’Imam hanno rappresentato una violazione particolarmente grave dell’art. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza). L’arbitraria alterazione della convivenza dei due coniugi mediante un’azione perpetrata dal potere pubblico è invece la ragione per la quale l’Italia è stata ritenuta colpevole della violazione dell’art. 8. L’aver reso inutilizzabili le prove contro coloro che avevano inflitto il danno psicologico e fisico a danno dei coniugi mediante l’apposizione del segreto di Stato, infine, ha rappresentato per la Corte una violazione dell’art. 13.
La ratio decidendi della Corte in merito alla violazione dell’art. 3 merita un’analisi più ampia. Il fatto che le autorità italiane non potevano ignorare l’altissimo rischio che Nasr fosse sottoposto a tortura e trattamenti inumani o degradanti come conseguenza dell’extraordinary rendition portata avanti dalla CIA è stato l’assunto che ha guidato la Corte nel suo giudizio. In merito all’apposizione del segreto di Stato del governo italiano sulle prove del coinvolgimento di CIA e SISMI è bene ricordare che, in base alla sentenza 110/1998 della Corte costituzionale, “l’opposizione del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri […] ha l’effetto di inibire all’autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente di utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto”. Per quel che riguarda gli agenti del SISMI, è sembrato alla Corte EDU piuttosto curioso che le prove a loro carico fossero state secretate visto che le informazioni sulla questione erano facilmente reperibili sulla stampa nazionale. In sostanza, l’atteggiamento dello Stato era immotivato poiché la confidenzialità della vicenda era stata già pesantemente compromessa. In secondo luogo, è stata fatta notare l’indolenza dell’esecutivo italiano, che ha vanificato gli sforzi dei giudici nella ricerca della verità evitando di chiedere l’estradizione degli agenti statunitensi coinvolti e anzi stendendo, anche sulle prove che li riguardavano, il velo del segreto di Stato. Pertanto, non ravvisando particolari motivazioni dietro l’atteggiamento del governo italiano, la Corte EDU ha concluso che quest’ultimo ha di fatto operato con l’intento esclusivo di garantire l’impunità agli individui coinvolti.
Le considerazioni dei giudici di Strasburgo sull’utilizzo del segreto di Stato risultano ancora più importanti se raffrontate con quanto affermato dalla Corte costituzionale italiana in due sentenze: la 106/2009 e la 24/2014. In esse veniva sostanzialmente certificata la bontà (o quantomeno la liceità) delle azioni intraprese dal governo in merito alla vicenda. Citando quella numero 86 del 1977, nella sentenza del 2009 veniva ricordato che “il giudizio sui mezzi idonei e necessari per garantire la sicurezza dello Stato ha natura squisitamente politica e, quindi, mentre è connaturale agli organi ed alle autorità politiche preposte alla sua tutela, certamente non è consono alla attività del giudice”. Il principio che permea entrambe le sentenze è quello di una ragion di Stato di ottocentesca memoria laddove il potere politico, unico depositario della sicurezza dei cittadini, è pronto a sacrificare all’altare di quest’ultima, e con un’arbitrarietà pressoché illimitata, i diritti di coloro che rientrano sotto la sua giurisdizione. Tali reminiscenze, tuttavia, non sembrano trovare spazio nella sentenza della Corte EDU. La quale, al contrario, ha ricordato che il solo ed unico obiettivo che avrebbe dovuto ispirare l’operato italiano avrebbe dovuto essere quello di assicurare i colpevoli alla giustizia.