
La divulgazione della notizia concernente l’incontro tra il nostro Presidente del Consiglio dei ministri ed il Primo ministro libico il 2 febbraio scorso, suggellato con la conclusione di un memorandum di intesa che attiene alla “cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere”, ha suscitato, sin da subito, un comprensibile disappunto (v. il tempestivo comunicato dell’ASGI), indubbiamente condivisibile (sul memorandum v. già M. G. Giuffré, 2017).
Tale memorandum sembra, prima facie, ricalcare il modello tipico già adottato più volte nel corso del tempo, un modello dunque strategico, che si caratterizza per utilizzare un espediente tale da permettere di agire sulla cooperazione sulla scorta di precedenti accordi sottoscritti nonché di successive intese tecniche di attuazione siglate o di “stringere” addirittura ulteriori accordi successivi: “scatole cinesi”…, un ingegnoso espediente già utilizzato (cfr. appunto C. Fioravanti, Scatole cinesi. Quale controllo democratico sulla cooperazione “italo-libica-europea” in materia di immigrazione?, in G. Brunelli et al. (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, Napoli, 2009, p. 539 ss.).
Il testo del memorandum prevede, infatti, nel preambolo (già in apertura quindi) il richiamo agli accordi sottoscritti nel corso del tempo dalle parti, “tra cui” il noto trattato di amicizia, partenariato e cooperazione del 2008 – in particolare si rammenta il famigerato art. 19 del trattato –, la dichiarazione di Tripoli del (mese di gennaio) 2012 “e altri accordi e memorandum sottoscritti in materia”, formula questa che, lascia intendere il richiamo al meno noto processo verbale del (mese di aprile) 2012, nonché lascia plausibilmente supporre la possibile conclusione, successivamente al menzionato processo verbale, di ulteriori accordi e memorandum (sul noto trattato del 2008, v.: N. Ronzitti 2009 e ancora N. Ronzitti 2009; pure F. Munari, Controllo dei flussi migratori europei tra obblighi dell’Unione europea e rapporti bilaterali dell’Italia, in E. Triggiani (a cura di), Europa e Mediterraneo. Le regole per la costruzione di una società integrata, Napoli, 2010, pp. 283-284).
Il contenuto del recente memorandum suscita senza dubbio interesse poiché contempla altresì una cooperazione di sostegno – anche dal punto di vista finanziario –, cooperazione che, si badi bene, comprende sostanzialmente l’attuazione e lo sviluppo di misure nonché iniziative invero da correlare alle determinazioni già racchiuse all’“interno” degli accordi e delle intese precedenti: “scatole cinesi”… appunto!
Emblematico “campione” di detto ingegnoso espediente appare, difatti, un dettaglio menzionato proprio alla fine del primo periodo del par. 1 del famigerato art. 19 del trattato del 2008 che palesa la comune volontà di agire sulla cooperazione… poiché ivi si richiamano le intese tecniche strette successivamente all’accordo del 2000, vale a dire i due protocolli attinenti all’attività di contrasto all’immigrazione clandestina, in particolare all’attività di pattugliamento congiunto marittimo, sottoscritti a Tripoli nel 2007:
Art. 19
Collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all’immigrazione clandestina
“1. Le due Parti intensificano la collaborazione in atto nella lotta […] all’immigrazione clandestina, in conformità a quanto previsto dall’Accordo firmato a Roma il 13.12.2000 e dalle successive intese tecniche, tra cui, in particolare, per quanto concerne la lotta all’immigrazione clandestina, i Protocolli di cooperazione firmati a Tripoli il 29 dicembre 2007” (stralci delle disposizioni rilevanti dei protocolli del 2007 figurano in Materiali, in C. Favilli (a cura di), Procedure e garanzie del diritto di asilo, Padova, 2011, p. 424 ss.).
Peraltro, uno dei protocolli del 2007 è stato altresì “ottimizzato” mediante un protocollo ulteriore, firmato nel 2009 (v. infra).
L’attuazione e lo sviluppo di misure nonché iniziative nel settore migratorio qui preso in esame comprendono, fondamentalmente, la pianificazione di attività, l’assistenza, il supporto tecnico e tecnologico, il sostegno finanziario italiano (e dell’UE), la cooperazione. Si tratta, complessivamente, di molteplici misure nonché iniziative riguardanti, tra le altre, lo scambio di informazioni pertinenti anche in materia di traffico di migranti e tratta di esseri umani, lo scambio di personale qualificato, la formazione anche relativa alla conduzione di motovedette, l’addestramento, la sorveglianza delle frontiere terrestri e marittime libiche, l’attività in mare (pianificazione), il sistema di controllo dei confini meridionali libici (perfezionamento), i c.d. campi di accoglienza libici.
Da considerare che l’Unione europea non solo ha accolto con favore il memorandum concluso il 2 febbraio scorso, ma ha anche formulato l’intenzione di sostenere il nostro Paese per attuarlo, proprio nella recente Dichiarazione di Malta dei membri del Consiglio europeo sugli aspetti esterni della migrazione: affrontare la rotta del Mediterraneo centrale, del 3 febbraio scorso (punto 6, lett. i), dichiarazione che però non ha recepito le “istanze” contenute nell’appello lanciato il giorno precedente dall’UNHCR e dall’IOM, proprio sulla gestione dei flussi di migranti e rifugiati nel Mediterraneo centrale nonché sulle deplorevoli condizioni di vita di migranti e rifugiati in Libia (v. il joint statement sul sito dell’IOM). Del resto, l’UE non avrebbe potuto assumere una posizione diversa, posto che è stata salutata con favore la pertinente comunicazione congiunta della Commissione e dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (endorsement dell’Alto rappresentante), dal titolo “La migrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale – Gestire i flussi e salvare vite umane”, del 25 gennaio scorso (Dichiarazione di Malta: punto 4), comunicazione congiunta che manifesta già nell’introduzione l’intenzione dell’UE di affiancare e sostenere le iniziative individuali poste in essere da singoli Stati membri, tra cui, l’Italia… (comunicazione congiunta, p. 3).
Da non trascurare altresì che il nostro Paese e la Libia fanno parte del Gruppo di contatto UE-Nord Africa che racchiude un numero considerevole di Ministri dell’interno, tra i quali, i Ministri di Austria, Francia, Germania, Malta, Slovenia, Algeria e Tunisia, compagine riunitasi recentemente a Roma il 19 e 20 marzo scorso. Tale gruppo di contatto ha convenuto di adottare un approccio congiunto volto al rafforzamento del coordinamento, della cooperazione, dello scambio di expertise e di informazioni allo scopo proprio di affrontare le diverse questioni attinenti alla gestione dei flussi nel Mediterraneo centrale, conformemente alla Dichiarazione di Malta (v., più diffusamente, la relativa dichiarazione di intenti del gruppo di contatto).
Il contenuto di questo ultimo accordo-ultima “scatola cinese” che comprende sostanzialmente l’attuazione e lo sviluppo di misure nonché iniziative invero da correlare alle determinazioni già racchiuse all’“interno” degli accordi e delle intese precedenti (repetita iuvant), presenta, in modo particolare, un profilo che suscita una significativa perplessità da “allontanare”.
L’ingegnoso espediente delle scatole cinesi potrebbe difatti consentire di attivarsi al fine di pianificare nuove operazioni di pattugliamento congiunto marittimo, sulla base della corrispondente determinazione attinente al “monitoraggio dei confini” che risulta dal processo verbale del 3 aprile 2012 tra il nostro Ministro dell’interno Annamaria Cancellieri ed il Ministro dell’interno libico Fawzi Al-Taher Abdulali:
“[a]doperarsi alla programmazione di attività in mare negli ambiti di rispettiva competenza nonché in acque internazionali, secondo quanto previsto dagli accordi bilaterali in materia e in conformità al diritto marittimo internazionale”.
Da sottolineare, che la formula “secondo quanto previsto dagli accordi bilaterali in materia”, plausibilmente, intende riferirsi all’art. 3 bis introdotto dal protocollo del 4 febbraio 2009 finalizzato ad “ottimizzare” uno dei precedenti protocolli del 2007:
Art. 3 bis
«1. Le due Parti organizzano dei pattugliamenti marittimi con equipaggi congiunti […]. 2. Tali pattugliamenti operano nelle acque territoriali libiche ed internazionali sotto la supervisione di equipaggio libico e con la partecipazione di elementi italiani. Analogamente tali pattugliamenti operano nelle acque territoriali italiane ed internazionali con supervisione di equipaggio italiano con la partecipazione di elementi libici» (articolo tratto da S. Trevisanut, Immigrazione irregolare via mare, diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Napoli, 2012, p. 143, nota 111; in argomento, anche p. 143).
L’ipotetica pianificazione di operazioni di pattugliamento congiunto marittimo suscita, al solo pensiero, ragionevoli perplessità da “allontanare” riguardo alla conseguente eventualità di procedere all’esecuzione di dirottamenti tesi a condurre o addirittura consegnare le persone soccorse in mare presso un luogo da ritenere non sicuro, particolarmente dal punto di vista del rispetto dei diritti umani fondamentali. In merito, sembra infatti più che opportuno riportare una significativa constatazione che figura nell’autorevole report dal titolo piuttosto eloquente, ossia ‘Detained and dehumanised’. Report on human rights abuses against migrants in Libya, elaborato dall’United Nations Support Mission in Libya (UNSMIL) e dall’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights (OHCHR), del 13 dicembre 2016:
“[w]hen migrant boats have been intercepted by the Libyan Coast Guard, migrants are typically transferred to DCIM [Department for Combatting Illegal Migration] detention facilities or to private houses and farms, sometimes for a fee, where they are often subjected to forced labour and, in the case of women, rape and other sexual violence” (punto 6.4. Violations related to interception at sea, pp. 19-20).
Da notare che il report riferisce di “DCIM detention facilities”, invece il memorandum di campi di accoglienza libici, menzionati appunto nel preambolo e soprattutto all’art. 2 par. 2 e par. 3, con riferimento alle misure riguardanti l’assistenza sanitaria dei migranti e la formazione adeguata (locuzione alquanto generica) in materia di immigrazione clandestina e tratta di esseri umani del personale libico, proprio in tali “campi di accoglienza”. In fondo, si tratta di una piccola “differenza”…: infatti il report rivela che le “[c]onditions of detention in DCIM centres are generally inhuman, falling far short of international human rights standards” (punto 6.1. Arbitrary detention and inhuman conditions of detention, p. 15): doppio sic!
Del resto, la Libia è parte alla Convenzione sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (SAR) del 1979, “which requires States parties to ensure that assistance is provided to any person in distress at sea, regardless of the nationality or status of the person or the circumstances in which the person is found and to provide for his or her initial medical or other needs and deliver him or her to a place of safety [ossia, un luogo sicuro]” (cfr. ancora il report, punto 4. International legal framework, p. 10). Un “place of safety”: appunto!
Peraltro, la zona di Search and Rescue (SAR) libica, è stata sostanzialmente considerata ipotetica; da precisare che l’istituzione dell’area SAR costituisce un obbligo discendente proprio dalla Convenzione sulla ricerca ed il salvataggio marittimo del 1979… (su detti aspetti, cfr.: U. Leanza, F. Caffio, L’applicazione della Convenzione di Amburgo del 1979 sul SAR, in Riv. dir. nav., 2015, rispettivamente, p. 325 e pp. 320-321).
Occorre non dimenticare che la cooperazione marittima Italia-Libia, anno 2009, come noto, ha avuto un epilogo negativo: il nostro Paese è stato condannato dalla Corte di Strasburgo, per i respingimenti – violazione (anche) dell’art. 3 e dell’art. 4 prot. 4 della CEDU – attuati proprio in direzione della Libia, nel celebre caso Hirsi.
Non rimane che concludere questi brevi e mirati spunti di riflessione, con un semplice interrogativo, probabilmente scontato: dalla “storia” (il caso Hirsi appunto) non si dovrebbe imparare? La risposta, egualmente scontata (ossia affermativa, dal mio punto di vista), resta però sospesa nel tempo: triplo sic! Il tribunale di Tripoli adito (ovviamente tempo addietro) ha infatti sospeso temporaneamente l’attuazione del MoU: “[t]he verdict came to stop the MoU [Memorandum of Understanding] as six people including a former justice minister filed a lawsuit asking for ending the execution of the agreement as the one who signed it, Fayez Al-Serraj, doesn’t have an official authority yet in Libya” (così Libyan Express, del 23 marzo scorso).
Appare difficile prevedere le implicazioni giuridiche di tale sospensione, tenuto conto della situazione politica ed istituzionale altamente instabile presente in Libia (così, da subito, D. Belluccio dell’ASGI). Appare plausibile però attendere una risposta, rectius una mossa di risposta di Fayez Al-Serraj.