
Il 9 maggio 2017 si è tenuta, presso il Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli, la conferenza dal titolo “Le crisi siriana e libica: possibili equilibri e le sfide al diritto internazionale”, organizzata dal Centro di ricerca sulle Organizzazioni Internazionali ed Europee (CROIE) della LUISS in collaborazione con l’Istituto Affari Internazionali (IAI). La conferenza, articolata in tre sessioni, ha offerto un’analisi approfondita e critica delle due maggiori crisi internazionali attualmente in corso, stimolando proficue riflessioni sugli aspetti giuridici e politologici coinvolti. L’evento, che ha riunito personalità di spicco del mondo accademico, delle istituzioni, del giornalismo e dell’impresa, ha inteso porsi come un momento di incontro e discussione attraverso un approccio alla tematica multidisciplinare e interattivo.
Gli indirizzi di saluto sono stati rivolti da Leonardo Morlino, prorettore alla ricerca della LUISS Guido Carli, e da Elena Sciso, in qualità di Direttore del CROIE, che ha introdotto l’argomento oggetto della conferenza. La crisi siriana e quella libica, entrambe scoppiate nel 2011, pongono importanti sfide alla comunità internazionale, alimentando la discussione su alcuni principi classici del diritto internazionale, come la legittimità e l’effettività. Esse mettono in evidenza la difficoltà di individuare un punto di equilibrio tra i nuovi obblighi che scaturiscono in capo agli Stati dalle norme sulla tutela dei diritti umani fondamentali formatesi nella seconda metà del XX secolo e i tradizionali obblighi derivanti da consolidate regole del diritto internazionale generale, come il rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità degli Stati e il divieto del ricorso individuale all’uso della forza armata. In tale contesto sembra poi evidente l’affanno nel quale si muove l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Gli schemi normativi e d’intervento disegnati dalla Carta del 1945 appaiono ormai inadeguati ad affrontare le sfide del presente, e gli equilibri formatisi all’indomani del secondo conflitto mondiale, che avevano sostanzialmente retto alla fine della guerra fredda, oggi sembrano del tutto superati, rendendo necessaria la ricerca di nuovi assetti all’interno della comunità internazionale, basati su nuovi valori condivisi.
La prima sessione è stata introdotta e presieduta da Paolo Benvenuti[1], il quale dopo aver ribadito la scottante attualità del tema trattato e l’importanza dei profili giuridici e geopolitici interessati, ha coordinato gli interventi di Roberto Aliboni[2], Elena Sciso[3] e Natalino Ronzitti[4].
Nella sua relazione Aliboni ha illustrato, innanzitutto, la dinamica generale della crisi che ha investito il Medio Oriente e il Nord Africa. Tale crisi potrebbe essere interpretata come la conseguenza del progressivo indebolimento della protezione assicurata ai regimi di quell’area dai paesi occidentali ed in particolare dagli Stati Uniti. Venendo meno l’appoggio Usa, tali regimi hanno reagito con maggiore autoritarismo, reprimendo le rivolte popolari nel sangue e cercando di sfruttare il vuoto lasciato dall’Occidente come un’opportunità per espandere la loro egemonia.
Secondo Aliboni, la crisi siriana e quella libica si differenziano, in primo luogo, per la diversa posizione che i due Stati occupano all’interno della regione, centrale la prima, periferica la seconda. In secondo luogo, la Siria presenta una strutturazione statale e civile più complessa. La società siriana è il risultato dell’instabile convivenza di diversi gruppi culturali e religiosi. La scena principale è occupata dalle tensioni tra i sunniti, che rappresentano la maggioranza del paese, e gli alawiti, il gruppo cui appartiene Bashar al-Assad. La Libia, uscita profondamente frammentata da decenni di dittatura, presenta delle comunità sociali più omogenee che obbediscono a potentati locali. Non esistendo una vera lotta nazionale, la possibilità per gli altri attori internazionali, specialmente regionali, di inserirsi nel conflitto è minore. Al contrario, la penetrazione dall’esterno è notevole in Siria, dove il conflitto ha raggiunto una dimensione assai significativa per durata, numero di vittime e di parti coinvolte. Qui, le tendenze jihadiste hanno trovato terreno assai fertile. L’intervento russo e quello iraniano hanno, sino ad oggi, impedito la vittoria delle opposizioni, che non sono abbastanza forti per portare Assad alla sconfitta.
La soluzione del conflitto appare ancora lontana e di non facile realizzazione. La Siria potrebbe ritrovare l’unità attraverso l’instaurazione di una federazione all’interno della quale garantire ampia autonomia ai curdi e senza l’obbligo di un presidente musulmano. Ma ciò non è in linea con le aspirazioni d’infiltrazione iraniana. Inoltre, lo Stato islamico, sebbene vedrà con ogni probabilità deluse le sue aspirazioni territoriali, continuerà a lottare come organizzazione terroristica insieme agli altri gruppi estremisti. Il nuovo Stato siriano nascerebbe, quindi, con al suo interno una forte lotta clandestina.
Sul fronte libico, lo scontro tra il governo riconosciuto a livello internazionale di Serraj e la fazione guidata dal Generale Haftar, sostenuto da Egitto, Russia e dai Paesi del Golfo, non accenna ad allentarsi. Il primo non appare in grado di mostrare maggiore autorità rispetto ai suoi vari oppositori, il secondo guadagna ogni giorno un controllo maggiore del territorio.
Infine, Aliboni ha sottolineato alcuni caratteri comuni alle due crisi. In primis la carenza strategica e la tendenza a strumentalizzare le alleanze e i contrasti da parte degli attori in campo. Rilevano, poi, il settarismo diffuso nella regione e il ruolo di prim’ordine giocato dagli interessi di potenza delle parti che direttamente o indirettamente prendono parte a queste due crisi.
Dopo questa prima analisi geopolitica, nel secondo intervento, Elena Sciso ha affrontato le principali questioni di diritto internazionale legate alla crisi in Libia e a quella in Siria. Il primo punto che è stato discusso è quello della base giuridica dell’intervento condotto dalla Nato in Libia nel marzo del 2011. Ed infatti, a seguito della violenta repressione delle rivolte popolari di quell’anno, il regime di Gheddafi aveva suscitato la dura reazione della comunità internazionale e alcuni governi, tra cui quello italiano, avevano effettuato, forse troppo precipitosamente, un riconoscimento formale del neo-costituito Governo di transizione libico come unico rappresentante della Libia. In questo contesto il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato le ris. 1970 e 1973. Quest’ultima, adottata con 10 voti a favore e 5 astensioni, tra cui quelle della Federazione Russa e della Repubblica Popolare Cinese, membri permanenti e della Germania come membro non permanente, aveva autorizzato gli Stati membri dell’Organizzazione ad intervenire in Libia con un mandato preciso e ben limitato: porre fine alle gravissime violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo commesse in maniera sistematica dal regime contro la popolazione civile. Si è trattato della prima e più significativa seppure non unica, attuazione della nuova e controversa dottrina della Collective Responsibility to Protect. Tuttavia, l’intervento condotto dalla coalizione Nato si era poi spinto oltre il mandato ricevuto, fornendo un sostanziale supporto alle forze di opposizione al regime e facilitando così di fatto il rovesciamento di quest’ultimo.
Un ulteriore punto su cui è stato posto l’accento è quello della forte instabilità interna della Libia, successiva alla caduta di Gheddafi. Al parlamento istituito a Tobruk a seguito dei risultati delle elezioni del 2014 si è contrapposto quello costituitosi a Tripoli. Le Nazioni Unite, nel tentativo di gestire la crisi, hanno individuato in Fayez al-Serraj il leader del nuovo Governo di unità nazionale che avrebbe dovuto ristabilire gli equilibri interni e pacificare il Paese. Questi, però non ha mai ottenuto il voto favorevole del Parlamento di Tobruk. Nonostante l’appoggio Onu, il governo di Serraj manca di effettività sul territorio, controllandone solo una porzione ristretta a nord-ovest, mentre a est il controllo è dell’uomo forte di Tobruk, il Generale Haftar. Davanti a tale scenario la credibilità della comunità internazionale è messa a dura prova. Appare a rischio il proseguimento di EunavforMed Sophia, l’operazione navale militare condotta dall’Unione europea a largo delle coste libiche col fine di fermare il traffico di migranti nel Mediterraneo. Il mandato, che scade a luglio 2017, non è stato ad oggi rinnovato. Inoltre, il passaggio alla fase successiva che prevede il pattugliamento delle acque territoriali libiche sembra inattuabile, richiedendo un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza, che verrebbe ostacolata dal veto russo e il consenso del Governo di unità nazionale, il quale però non sembra intenzionato a prestarlo. Tale consenso comunque si rivelerebbe una base giuridica debole data la mancanza di un controllo effettivo sul territorio. L’Italia ha firmato all’inizio di gennaio 2017 un Memorandum of Understanding con il governo di Serraj per l’assistenza e il rafforzamento della guardia costiera libica per arginare il fenomeno migratorio. Tale MoU è stato prontamente dichiarato nullo e mai ricevuto dal Parlamento di Tobruk, il cui presidente ha dichiarato la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli un atto di occupazione. Serraj e Haftar si sono incontrati recentemente, senza però giungere a nessuna conclusione rilevante per la stabilizzazione del Paese.
Davanti alla crisi scoppiata in Siria nel 2011 la comunità internazionale non è riuscita a trovare la stessa compattezza inizialmente dimostrata in relazione a quella libica. Qui, la situazione è complicata dalla presenza, accanto ai gruppi armati di oppositori, di gruppi terroristici islamisti come al-Nusra, al-Qaeda, e soprattutto lo Stato islamico o Isil, che ha occupato stabilmente alcune porzioni del territorio. Assad porta avanti una repressione spietata nei confronti di tutti, contando sull’appoggio di Russia e Iran. Sul territorio siriano hanno luogo anche bombardamenti aerei condotti dalla coalizione a guida Usa costituitasi nel 2015 indifesa dell’Iraq dagli attacchi dell’Isil provenienti dalle roccaforti situate in Siria. I Paesi della coalizione dichiarano di agire in legittima difesa contro gli attacchi dell’Isil, individuale e/o collettiva sulla base di una richiesta del governo iracheno. Il Consiglio di sicurezza, con la ris. 2249 del 2015, preso atto che l’Isil e gli altri gruppi terroristici costituiscono una minaccia globale e senza precedenti alla pace e sicurezza internazionale, ha esortato gli Stati ad adottare nei territori di Siria e Iraq sotto controllo Isil le misure necessarie, nel rispetto del diritto internazionale, per prevenire e reprimere gli atti di terrorismo. È controverso se tale risoluzione autorizzi o si limiti a confermare la legittimità degli attacchi condotti da Stati terzi contro l’Isil in Siria e in Iraq.
Nel conflitto siriano sono state impiegate anche armi chimiche, presumibilmente da parte delle forze governative. Dopo l’attacco chimico di Ghouta nel 2013, che provocò circa 1400 morti, grazie alla mediazione Usa-Russia, la Siria aveva accettato di aderire alla Convenzione di Parigi del 1993 sulla proibizione dello sviluppo, produzione, immagazzinaggio ed uso di armi chimiche e sulla loro distruzione, e prende avvio il piano di smantellamento dell’arsenale chimico in suo possesso realizzato sotto il controllo congiunto dell’Onu e dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW). Tuttavia, notizie di attacchi chimici in Siria hanno continuato a giungere e risultano comprovate dal recente rapporto della Commissione indipendente d’inchiesta istituita dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu. A seguito dell’ultimo attacco chimico contro il villaggio di Khan Shaykhun, che ha prodotto 87 vittime civili di cui 20 bambini, presuntivamente attribuibile alle forze governative siriane, il presidente Trump ha ordinato nella notte tra il 6 e 7 aprile il lancio di missili contro la base siriana dalla quale sarebbe partito l’attacco. La Russia ha qualificato tale lancio come un atto di aggressione e ha posto l’ennesimo veto in seno al Consiglio di sicurezza, bloccando l’adozione di una risoluzione che, pure, conteneva la semplice condanna dell’impiego di armi chimiche e chiedeva alla Siria collaborazione per l’accertamento delle responsabilità dell’attacco. Questi fatti hanno riportato all’attenzione la discussione attorno alla Responsibility to Protect (RtoP). Elaborata a partire dagli anni 2000, la RtoP si basa su una nuova nozione di sovranità, intesa non più esclusivamente come controllo del territorio e della relativa popolazione ma come responsabilità interna ed esterna di ciò che avviene sul proprio territorio e alla propria popolazione. Ne deriva che qualora lo Stato territoriale si dimostri unwilling or unable di proteggere la sua popolazione contro mass atrocities o crimini, gli Stati della comunità internazionale hanno il dovere di intervenire per assicurare tale protezione. La RtoP, che per una parte della dottrina sarebbe oggetto di una norma di diritto internazionale generale in corso di formazione, dovrebbe essere esercitata nel quadro del meccanismo di sicurezza collettiva dell’Onu e nel rispetto di criteri ben precisi, come quelli della extrema ratio, del bilanciamento tra danni conseguenti all’intervento e i danni che si avrebbero in caso di mancato intervento, dell’obiettivo unico e dell’uso limitato della forza; tali criteri dovrebbero essere applicati anche in caso di inazione del Consiglio per individuare una eventuale base presuntiva per interventi unilaterali degli Stati. Sciso ha poi ricordato le iniziative assunte da alcuni governi in ambito ONU per limitare l’impiego del veto, quando il Consiglio debba pronunciarsi su mass atrocities o crimini.
La prima sessione si è conclusa con la relazione di Ronzitti, il quale ha trattato il tema della legittima difesa contro attori non statali, con particolare riferimento all’Isil. Ronzitti definisce l’Isil come un regime di fatto o un movimento insurrezionale a base territoriale, che utilizza come metodi di combattimento atti terroristici e atti che costituiscono gravissime violazioni del diritto internazionale umanitario. Combatte contro il governo siriano e quello iracheno, cerca di insediarsi in Libia e compie attentati terroristici nei paesi occidentali. Nessun dubbio deve essere avanzato nei confronti della legittimità dell’intervento russo a sostegno di Assad. Il consenso di quest’ultimo non è stato invece prestato in relazione all’intervento condotto dalla coalizione a guida Usa. Gli Stati che la compongono hanno dichiarato di agire in legittima difesa, individuale contro gli attacchi da essi subiti e compiuti dai foreign fighters, e collettiva a difesa dell’Iraq. La legittima difesa, oggetto di una norma consuetudinaria, va intesa come un diritto connaturato (ihnerent) con l’esistenza stessa dello Stato, indipendentemente dall’entità che lede la sua sovranità, e non necessità di alcuna autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza. Ed infatti, viene rilevato come la già citata ris. 2249 non ne faccia menzione. L’art. 51 della Carta dell’Onu, che cristallizza la legittima difesa come espressa eccezione al divieto dell’uso della forza, non specifica se, ai fini della reazione in legittima difesa, l’attacco armato debba provenire da uno Stato o possa provenire anche da un attore non statale. Quanto appena detto vale anche per i patti militari di legittima difesa collettiva. Analizzando la prassi precedente, è possibile individuare casi in cui gli Stati hanno agito in legittima difesa contro entità non statali. Vanno discussi sotto il profilo della lotta all’autodeterminazione l’intervento francese in Tunisia contro chi ospitava il Fronte di liberazione nazionale algerino e quello marocchino contro il Fronte Polisario in Algeria. Si pensi poi all’intervento di Israele in Libano e a Gaza a seguito del lancio di razzi da qui partiti, o a quello americano contro l’Afghanistan a seguito degli attentati dell’11 settembre, che ha costituito il primo caso di attivazione dell’art. 5 del Patto Nato. Quanto alla giurisprudenza internazionale, la Corte internazionale di giustizia, nella sentenza resa sul caso Nicaragua-Stati Uniti e nel parere consultivo sul muro in Palestina, ha riconosciuto il diritto naturale di difesa di uno Stato dall’attacco unicamente di un altro Stato. Questo dictum è stato da molti inteso come uno sbarramento alla legittima difesa contro attori non statali. Tuttavia, le opinioni separate dei giudici Simma e Kooijmans alla sentenza resa sul caso Repubblica democratica del Congo c. Uganda hanno affermato che un attacco armato da parte di attori non statali dia diritto ad agire in legittima difesa. Anche in una risoluzione dell’Institut de Droit International la legittima difesa è stata ammessa contro attori non statali in due situazioni: quando l’attacco provenga da uno Stato che si dimostri unwilling nell’ostacolare l’azione del gruppo, e quando l’attacco provenga da un luogo non soggetto alla giurisdizione di alcuno Stato. Sebbene la dottrina sia discorde sull’argomento, Ronzitti ha affermato in conclusione che si possa intervenire in legittima difesa contro attori non statali se lo Stato territoriale è unable or unwilling, e nel rispetto dei criteri di necessità e proporzionalità, nonché dei diritti umani e del diritto umanitario.
La seconda sessione è stata presieduta da Elena Sciso ed è stata interamente dedicata alla crisi siriana. Hanno preso la parola Laura Mirachian[5], Christian Ponti[6] e Lorenzo Kamel[7].
La relazione di Mirachian ha inteso fornire dapprima una breve analisi sulle cause del conflitto siriano. Sebbene la Siria fosse, prima dello scoppio della guerra civile, un paese a medio reddito, laico, multietnico e multireligioso, l’accentramento del potere nelle mani del partito di Assad, espressione della minoranza alawita, lasciava la maggioranza del paese, sunnita, priva di rappresentanza politica.
Procedendo con un’analisi geopolitica, Mirachian ha cercato di delineare le dinamiche d’intervento nel conflitto ad opera dei terzi, distinguendo tre circuiti: uno locale, uno regionale e uno internazionale. I protagonisti internazionali, inizialmente, secondo la strategia del leading from behind, hanno lasciato ampio spazio a quelli regionali, portatori di interessi tra di loro in contrasto: i paesi del Golfo, che mirano a conservare la loro influenza sulla regione, l’Iran, che cerca di contrastarli, Israele, che conduce bombardamenti discontinui, e la Turchia, la cui reazione è stata azionata dall’attivismo curdo. I curdi giocano un ruolo cruciale come protagonisti locali. Tutti questi attori hanno fornito ampio sostegno ai vari gruppi in lotta contro il governo, che invece ha ricevuto l’appoggio russo. Tutto ciò ha reso e rende difficile le trattative. Si pensi al fallimento della mediazione Onu di Kofi Annan, e ai fallimenti dei vari incontri Kerry-Lavrov. Pesa l’assenza dell’Europa e gli interventi aerei di Usa e Russia non sono tali da porre fine al conflitto.
Infine, Mirachian ha avanzato delle proposte su cui la comunità internazionale dovrebbe lavorare. Innanzitutto evitare la balcanizzazione della Siria che, per le diverse etnie che la abitano, potrebbe dar avvio ad episodi di pulizia etnica. In secondo luogo, viene auspicata la costituzione di un governo transitorio, una maggiore autonomia dei distretti locali con sfere di influenza esterne diverse, e una strategia post-conflitto di peace-keeping e rilancio economico.
Alla relazione di Mirachian ha fatto seguito quella di Ponti, il quale ha evidenziato gli aspetti diritto internazionale relativi alla questione dell’uso delle armi chimiche rilevando un avanzamento sul tenore del divieto. L’uso di armi chimiche costituisce una grave violazione del diritto internazionale umanitario. La giurisprudenza del Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia sul caso Tadic e l’emendamento all’art. 8 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, adottato alla Conferenza di Kampala del 2010, confermano che l’uso delle armi chimiche in un conflitto internazionale o interno costituisce un crimine di guerra. Nella ris. 2118, poi, il Consiglio di sicurezza ha qualificato la proliferazione di armi chimiche come una grave minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Tuttavia, in tale risoluzione manca il deferimento della situazione siriana al procuratore della CPI e non vi è alcun automatismo delle sanzioni in caso di violazioni degli obblighi assunti in materia di disarmo. Inoltre, il meccanismo investigativo congiunto Onu-Opcw, istituito con la ris. 2235 del 2015 del Consiglio di sicurezza, ha il compito di accertare l’uso delle armi chimiche, ma non anche l’attribuzione della responsabilità penale individuale.
Nonostante la distruzione dell’arsenale dichiarato, la Siria continua a disporre di armi chimiche e a non permettere l’accesso ai siti di produzione e stoccaggio al meccanismo congiunto Onu-Opwc. In conclusione, Ponti ha rilevato che, sebbene il programma di disarmo congiunto Onu-Opcw costituisca un precedente assoluto, la sua effettività rimane problematica a causa dello scarso effetto deterrente e della mancata collaborazione da parte siriana.
Nell’ultima relazione della seconda sessione il professor Kamel ha inteso fornire un quadro generale sul riassetto delle popolazioni in Medio Oriente con particolare riferimento alla minoranza curda. Nel 2015, in Medio Oriente vi erano più sfollati che dopo la seconda guerra mondiale in Europa, la maggior parte di essi si trovava in Siria. Il conflitto ha spinto centinaia di migliaia di sunniti a lasciare i territori controllati dalle forze di Assad verso il Libano e la Giordania. Migliaia di sciiti sono stati allontanati dall’Iraq con l’obiettivo di creare una realtà democratica sunnita. I curdi rappresentano un caso etnico particolare. Sono circa 20-35 milioni divisi in quattro diversi Stati: Turchia, Siria, Iran e Iraq. Kamel ha individuato tre aspetti significativi: l’esigenza di costituirsi in uno Stato con una propria identità etnica, l’alleanza con le potenze occidentali che durante i negoziati per la stipulazione del Trattato di Sèvres erano favorevoli alla creazione di uno Stato curdo, e l’autonomia di cui i curdi hanno sempre goduto in Iraq, già durante il regime di Saddam.
Secondo molti studiosi, gli attuali movimenti demografici stanno ricreando in Medio Oriente lo stesso assetto esistente durante il primo dopo guerra garantendo una maggiore stabilità interna. Kamel ha sottolineato che tali movimenti sono influenzati dalle differenze etniche, ma soprattutto da ragioni economiche e di sicurezza sociale, e che nella regione, accanto alle violenze settarie, esiste una dimensione inclusiva. Ciò è dimostrato da alcuni dati. Ad esempio, va considerato che nel 2003 il 40% della popolazione irachena era il risultato di matrimoni misti sunniti-sciiti, o che oggi la comunità curda di Bagdad non subisce discriminazioni etniche. Secondo Kamel, la cosiddetta tesi della “stabilizzazione etnica”, che vorrebbe una “medioevalizzazione” del Medio Oriente interpretando i movimenti demografici in corso come una specie di normalizzazione degli assetti demografici originali, dovrebbe tener conto del fatto che molti gruppi nella regione stiano semplicemente cercando di “getting back into history” per riacquisire le loro identità multiple.
L’ultima sessione della conferenza è stata moderata da Ronzitti ed ha avuto ad oggetto la crisi libica. Sono intervenuti Mirko Sossai[8], Andrea Atteritano[9] e Alfio Rapisarda[10].
Sossai ha esaminato la situazione statuale della Libia. La situazione interna di diffusa anarchia e generale frammentazione spinge a qualificare il paese come uno Stato fallito o in via di fallimento. Tuttavia, l’incapacità dello Stato libico di esercitare le sue funzioni non ne comporta l’estinzione. In caso contrario il suo territorio sarebbe da considerarsi res nullius, e quindi suscettibile di essere acquisito per occupazione. Sulla base dei principi di continuità dello Stato e di autodeterminazione dei popoli, il diritto internazionale tutela la sovranità dello Stato libico, nonché la sua integrità territoriale rispetto ad eventuali tentativi di smembramento, che sarebbero comunque impraticabili sul piano politico.
Sossai ha poi analizzato l’effettività come principio in base al quale individuare l’ente idoneo a porsi come governo di uno Stato. Nella situazione di specie è evidente la crescente debolezza del governo di Serraj che, nonostante il riconoscimento internazionale e il sostegno da parte dell’Onu, presenta un controllo del territorio fragile ed evanescente. Oltre a questo vi è almeno un’altra entità che aspira a porsi come governo legittimo della Libia, e cioè quella guidata dal Generale Haftar. Partendo dalla definizione del contenuto del principio di effettività come effettività interna, intesa come controllo del territorio, da un lato, ed effettività esterna, intesa come capacità di intrattenere relazioni internazionali, dall’altro, si potrebbe affermare, secondo Sossai, che il governo di Serraj possa, solo in via transitoria e grazie al fatto che la comunità internazionale lo riconosce come unico governo legittimo della Libia, supplire alla difficoltà di controllare effettivamente il territorio libico con la capacità di intrattenere relazioni internazionali.
Atteritano ha presentato una relazione sullo status dei trattati bilaterali Italia-Libia. Sebbene sia pacifico che un cambio di regime non comporti la sospensione automatica dei trattati da questo stipulati, va comunque considerato che la situazione d’instabilità presente in Libia possa avere un’incidenza sulla vigenza dei trattati conclusi precedentemente alla caduta di Gheddafi. I trattati presi in esame sono due: l’Accordo sulla promozione e protezione degli investimenti del 2000 e il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione firmato a Bengasi nel 2008. Si potrebbero invocare come cause di estinzione o sospensione di tali trattati la clausola rebus sic stantibus e l’impossibilità sopravvenuta di esecuzione. Ma, di fatto, nessuna delle Parti ha attivato i meccanismi previsti a questo fine dalla Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. Vanno considerati poi gli effetti del conflitto armato. Accanto alla teoria tradizionale per cui il conflitto armato è causa di estinzione automatica del trattato, vi è quella, che trova la sua base giuridica nel Progetto di articoli sugli effetti dei conflitti armati sui trattati del 2011, secondo la quale il conflitto non necessariamente implicherebbe l’estinzione ipso facto del trattato, al contrario, opererebbe il principio di continuità in relazione alla lista di trattati allegati al Progetto in base all’art. 7.
Le Parti possono in ogni caso stabilire una disciplina specifica, anche desumibile implicitamente. Rispetto all’Accordo sulla promozione e protezione degli investimenti del 2000 Atteritano ha sostenuto che le parti abbiano tacitamente inteso la sua prosecuzione attraverso la previsione di una tutela risarcitoria dei danni causati agli investimenti da qualsiasi tipo di conflitto. Diversamente il Trattato di Bengasi non prevede una disposizione simile, e non rientra nelle categorie di cui alla lista allegata al Progetto. Tale Trattato, secondo Atteritano, sarebbe stato sospeso per il periodo del conflitto, e non estinto, come dichiarato dall’Italia e come deducibile dal fatto che il Memorandum di intesa Italia-Libia del 2017, nel preambolo, afferma la volontà delle parti di dargli nuovamente attuazione.
La relazione di Rapisarda ha avuto ad oggetto la protezione degli investimenti e del personale italiano operante in Libia presso le istallazioni Eni. Rapisarda ha sottolineato le difficoltà che un’impresa incontra in un paese come la Libia, dove l’instabilità politica e sociale è evidente. Per operare in sicurezza è decisiva un’attenta analisi preliminare dei rischi esogeni, è necessario cioè valutare i pericoli (criminalità organizzata, terrorismo, cyber-spionaggio industriale) che possono danneggiare l’impresa e i suoi lavoratori attraverso dei metodi scientifici, degli algoritmi affidabili e ad alta precisione, per poi individuare e adottare misure che li riducano al minimo. In Libia Eni è riuscita a continuare ad operare anche dopo il verificarsi della crisi, nonostante dal 2014 il rischio sia stato classificato come alto. E ciò grazie al modus operandi proprio dell’azienda che mira ad integrarsi nel territorio in cui lavora. La Mellitah Oil and Gas, MOG, la joint venture attraverso cui Eni opera in Libia, conta più di 5000 dipendenti locali. Per la sicurezza e la continuità dell’azione nel paese sono stati fondamentali il dialogo con le comunità locali e la collaborazione con la compagnia di Stato petrolifera, partner principale della MOG, e con la banca centrale libica. Eni non ha potuto invece continuare ad operare in Cirenaica, dove il sito aziendale è stato chiuso e non più riaperto a causa dell’eccessivo livello di insicurezza. Sebbene oggi la Libia sia tornata a produrre 800 mila barili di petrolio al giorno, rimane altamente instabile e dunque si rende necessaria un’entità che abbia un effettivo controllo del territorio e assicuri la sicurezza delle operazioni. La stabilità della Libia è presupposto della stabilità degli interessi italiani in Libia.
Le conclusioni della conferenza sono state affidate a Carlo Maria Lo Savio[11] e Alessandro Colombo[12]. Lo Savio, come esponente del mondo del giornalismo, ha discusso della possibilità, che ritiene non remota, di destabilizzazione degli assetti politico-sociali interni attraverso l’utilizzo dei mezzi d’informazione. Ha sottolineato poi le gravi difficoltà da parte della stampa di accedere ai luoghi della crisi, in particolare in Siria, e di verificare la veridicità del materiale che giunge nelle redazioni. Ha quindi ripercorso le relazioni svolte, evidenziandone i punti principali.
Colombo ha dapprima evidenziato l’estrema frammentazione presente oggi in Libia e in Siria. Si tratta di microsistemi in cui è molto facile penetrare e porsi come attore del conflitto. Il numero delle variabili è altissimo, e ciò rende ancora più difficoltoso il negoziato in quanto non è agevole individuare i giusti interlocutori, quelli che contano. Successivamente Colombo ha rilevato come nelle crisi libica e siriana la comunità internazionale abbia mostrato due approcci completamente diversi. Nella prima è stato condotto un intervento militare, nella seconda si è verificata una totale paralisi. La comunità internazionale non è più coesa. Le due crisi sono indici del collasso del modello di ordine politico internazionale concepito negli anni 90 per sostituire quello esistente durante la guerra fredda. La stagione delle grandi missioni internazionali è finita, non vi è più la volontà di agire direttamente sul campo, ma i protagonisti internazionali sono sempre più inclini a sostenere le milizie locali, rischiando di alimentare ulteriormente il conflitto.